LA POLITICA AL TEMPO DEI MOVIMENTI

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I movimenti sociali su cui intendo concentrare la mia attenzione sono spinti da passione morale o ideologica, ma anche dall’interesse collettivo. Essi hanno uno scopo, spesso inteso in senso stretto – il voto per le donne, il sindacato per i lavoratori, i diritti civili per i neri. “Stretto”, qui, non vuol dire di scarse vedute o irrilevante. In effetti, questi scopi si connettono a fini più ampi: superare l’oppressione, ottenere l’eguaglianza. Tuttavia essi si focalizzano su un singolo traguardo raggiungibile o su un insieme di obiettivi strettamente connessi: qui c’è qualcosa che va fatta, ora; qui c’è una lotta che può essere vinta. I movimenti ottengono il sostegno delle persone a cui intendono giovare. Una gran quantità  di donne e uomini diventa attiva per proprio conto, per il bene reciproco e per quello di una causa più ampia.
La causa non è monolitica o esclusiva: i suoi sostenitori possono riconoscere che esistono altre cause meritevoli, alcune delle quali sono pronti a sostenere. Eppure per via della loro passione morale e della loro stretta attenzione e poiché perseguono un bene comune a loro caro, essi tendono ad alimentare tra loro un forte senso di solidarietà  e di impegno che non accetta facilmente il compromesso. Non pensano in termini di scambio tra una causa e un’altra. Sono concentrati in maniera radicale sul proprio progetto e, quindi, non possono dire: «Va bene, rimandiamo le richieste di sindacalizzazione (si fa per dire), se si aprono nuove opportunità  per le donne».
Il famoso 99% di Occupy Wall Street non fa un movimento, non finché un numero significativo di loro sia visibile in incontri e manifestazioni. Non sono sicuro su come e se ciò possa accadere. Il 99% non ha un’identità  coerente come quella dei gruppi impegnati in
movimenti precedenti: donne, lavoratori, neri. Tuttavia, considerato il carattere estremo della diseguaglianza nel nostro paese, possiamo plausibilmente aspirare a un movimento dei poveri tradizionali e dei nuovi vulnerabili – ampie fasce di popolazione maschile e femminile mobilitati, in marcia, che chiedono cambiamenti specifici nell’ordine sociale, senza ammettere alcun compromesso.
I movimenti possono rendere il mondo sociale migliore, ma non possono farlo da soli. Nelle
democrazie, essi devono lavorare attraverso le istituzioni dello Stato: il successo dipende da un ordine esecutivo o da un voto in Congresso. Questo tipo di sostegno istituzionale è mediato dai nostri partiti politici, i quali a volte possono essere persuasi o costretti a far proprie le richieste di un movimento. I partiti, però, hanno la caratteristica di essere pronti al compromesso rispetto alle loro posizioni dichiarate – l’odierno Gop (Gran Old Party – i repubblicani N.d.T.) è solo una temporanea eccezione – pertanto ciò che ottengono è sempre meno rispetto a quanto sperato dai militanti del movimento. Quindi come dovrebbero
relazionarsi i movimenti
sociali ai partiti politici?
A volte questi ultimi vengono creati dai movimenti sociali, come i partiti socialisti della fine del diciannovesimo secolo in Europa. Essi erano l’esercito elettorale di un movimento sindacale, costretto a prendere posizione su una più ampia gamma di temi rispetto a quelli che il movimento aveva inizialmente abbracciato, dalla prospettiva di governare.
Idealmente, in questi casi, la coerenza delle posizioni è garantita dagli interessi collettivi e dalla passione morale dei movimenti. I partiti di sinistra in Europa non sono più così, e negli Stati Uniti, nessuno dei nostri principali partiti politici è mai stato così. I partiti americani sono macchine guidate da un obiettivo: vincere le elezioni. Hanno un carattere vagamente ideologico, a destra come a sinistra, che fornisce loro una base organizzativa, ma devono competere con i voti del centro e la maggior parte delle volte la loro vera ideologia è semplicemente centrista (anche se il centro non è un punto fisso nello spazio politico: negli ultimi tre o quattro decenni, si è mosso costantemente verso destra).
Ogni partito mira a mettere assieme la coalizione più ampia
possibile di organizzazioni, interessi, movimenti, fazioni e personalità  e, per farlo, deve spesso adottare un insieme incoerente di posizioni che riflette la diversa forza e il differente zelo ideologico dei gruppi che esso cerca di tenere insieme. I politici sono persone che stringono compromessi; essi sono, di conseguenza, disprezzati dai militanti, ma fanno quello che dovrebbero fare: navigano seguendo il favore dei venti.
L’obiettivo dei militanti è modificare la direzione delle correnti, costringere i politici a riconoscere nuovi elettori e nuove preferenze popolari. Nelle democrazie, il popolo governa perché i politici devono prestargli attenzione, annusare l’aria, leggere la posta, incontrarsi con elettori impegnati, commissionare sondaggi d’opinione. Almeno, questo è il modo in cui la democrazia dovrebbe funzionare quando non è distorta dal potere e dalla ricchezza costituiti, come è di solito di questi tempi. Qui c’è una distin-
zione critica tra i politici: i buoni vengono a patti con le loro posizioni ideologiche per deferenza nei confronti dell’opinione pubblica e i cattivi, invece, si rimettono alle persone che pagano per le loro campagne. Entrambi i gruppi sono opportunisti, ma i primi sono, per così dire, i nostri opportunisti. Forse c’è un terzo gruppo, il migliore, che invita i propri sostenitori a mobilitarsi per una causa e li spinge ad agire.
I partiti raccolgono voti; i movimenti mobilitano potenziali elettori e cercano di modificare i termini della raccolta voti. «Se volete questi voti – dicono i militanti ai politici – questo è quello che dovete fare. La vostra ricompensa è l’incarico politico, la nostra la politica pubblica». Il valore della prima ricompensa è ovvia, quello della seconda deve essere giustificato ideologicamente. Ecco perché i movimenti sono “cause”, mentre i partiti sono macchine. Non confondeteli: non chiedete ai partiti più di quanto possano dare. Molti a sinistra sognano un partito-movimento, come in Europa ai vecchi tempi, ma ciò non è possibile nelle democrazie pluraliste contemporanee. Viviamo in società  frammentate e celebriamo la frammentazione perché è il prodotto della libertà  di associazione,
della diversità  etnica di una società  di immigrati e del pluralismo religioso, tutto ciò gioca a sfavore di partiti politici ideologicamente coerenti.
Militanti e intellettuali possono, a volte, produrre un partito con idee forti, impegnati per questo o quell’obiettivo del movimento, che guarda a sinistra (o a destra). Ma si tratta di una condizione temporanea e una volta che l’obiettivo – o una sua versione frutto del compromesso – sarà  raggiunto, il partito ritornerà  lentamente al centro, lasciando molto
da fare al prossimo gruppo di militanti, e a quello successivo, e a quello dopo ancora. I militanti dei movimenti non devono permettere a se stessi di farsi cooptare dai partiti; devono usare qualunque potere governativo ottengono solo finché è realmente utile alla loro causa. E poi devono lasciare il governo: mantenere l’incarico non è la loro professione. Perché persino dopo le vittorie, in cui noi (a sinistra) speriamo, ci saranno ancora persone in difficoltà , abusate, oppresse, discriminate che occorre mobilitare in modo che possano cambiare le proprie vite. La politica dei partiti è modulata dalle scadenze elettorali, quella dei movimenti è un lavoro costante.


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