L’ULTIMA PRIMAVERA

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Senza il supporto di elementi interni alla cricca che da oltre quarant’anni tiene in pugno il Paese, l’attacco al cuore del regime non sarebbe stato concepibile. Dopo le recenti defezioni di alti dignitari diplomatici e militari, la strage di ieri mina le fondamenta della dittatura siriana. Certo, l’esito della guerra civile resta indeterminato. Il massacro continua, anche se la disinformazione di tutte le parti in conflitto impedisce di coglierne le dimensioni effettive. Il presidente potrà  restare per un tempo forse non breve sulla sua poltrona, o asserragliato in qualche bunker. Ma intorno a lui i veri detentori del potere — le élite militari e in specie dell’intelligence — stanno rifacendo i conti per adattarsi a uno scenario mobile.
Sul piano militare, nessuno può vincere. Da sole, le opposizioni armate non prevarranno. Nemmeno con i sostanziosi aiuti arabosauditi, qatarini e occidentali. Ma non potranno essere sradicate, a meno che i pretoriani di al-Assad non optino per la guerra di sterminio, mettendo mano financo alle armi chimiche.
In questa come in altre guerre civili le armi servono a manutenere il conflitto, non a risolverlo. Quando gli storici scriveranno la storia della crisi in Siria, scopriremo probabilmente che a deciderne le sorti sarà  stato il denaro. Quello che scarseggia nelle casse del regime, mentre sovrabbonda nei conti dei petromonarchi della Penisola arabica. Ed è speso non solo per armare il raffazzonato Esercito siriano libero, ma soprattutto per convertire dirigenti e funzionari di Damasco alla causa dei rivoltosi.
Lo status quo ante non è ripristinabile. Allo stesso tempo, le divisioni fra i ribelli, sommate alle defezioni e ai riallineamenti delle élite damascene, prospettano una lunga fase di instabilità . Per un cambio di regime non basta la resa del sovrano uscente, o meglio di coloro che lo usano come scudo dei propri privilegi. Serve un nuovo sovrano. I pretendenti sono un po’ troppi, uniti solo dall’odio per l’assai minoritaria setta alauita che s’identifica con il potere e per la borghesia degli affari che vi è associata. Se mai vi sarà  un vincitore della partita siriana, costui non sarà  chi avrà  fatto fuori al-Assad, ma chi fra coloro che l’avranno eliminato sarà  riuscito a liquidare i
suoi attuali alleati.
Qui conviene allargare il quadro. Sotto il profilo strategico, quella siriana è una guerra per procura. La mattanza interna si riflette infatti sulla partita regionale e sul braccio di ferro fra le maggiori potenze globali. E viceversa.
Quanto alla regione. In Siria si scontrano anzitutto Arabia Saudita e Iran. Chiunque succeda ad al-Assad, difficilmente potrà  essere manovrato dai persiani. Vista da Teheran, la sconfitta dell’ambiguo alleato siriano significherebbe perdere il collegamento diretto con il Libano e quindi lo sbocco sul Mediterraneo. Già  solo il prolungamento della crisi mette in questione l’influenza iraniana sul Levante e ne indebolisce la leva libanese, Hezbollah. Peraltro, il fronte arabo sunnita è tutt’altro che omogeneo. Il protagonismo del Qatar, che sostiene i “suoi” Fratelli musulmani contro gli islamisti più vicini a Riyadh, ha alterato gli equilibri del Golfo.
Qui interviene la dimensione mondiale del conflitto. Finché le “primavere” destabilizzano il Nordafrica o il Sahel, passi. Ma quando si avvicinano a Israele e alle ricchezze energetiche del Golfo Persico/ Arabico, suona l’allarme generale. Stati Uniti, Russia, Cina e residue subpotenze europee (Francia in testa) alzano le antenne e dispongono le carte sul tavolo del grande gioco geopolitico. Washington vorrebbe a Damasco un regime sunnita spacciabile per democratico, che completi l’accerchiamento dell’Iran senza troppo eccitare i timori israeliani. Ma Obama non vuole impegnarsi direttamente nella guerra, comunque non alla vigilia delle elezioni presidenziali.
Mosca preferisce il massacro infinito pur di non perdere l’ultima pedina in Medio Oriente. Putin ha mangiato la foglia libica. Sicché veta qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza da usarsi per legittimare un intervento militare. Per il leader russo il “cambio di regime” è anatema comunque e dovunque, perché la moda potrebbe estendersi al suo impero. Infine, uno sguardo alla carta geografica ci ricorda che siamo a due passi dal Caucaso: i jihadisti a Damasco come nuovo anello di una catena che destabilizza la Russia musulmana?
Pechino condivide i timori di Mosca. Alle Nazioni Unite si muove nella sua ombra, lasciando ai diplomatici di Putin il lavoro sporco. Di sicuro non vuole allargare il conflitto, con il rischio di incendiare una regione strategica per i propri rifornimenti energetici.
Il regime di al-Assad avrà  dunque il tempo contato, ma non per questo cesseremo di contare i morti di un sisma di cui stiamo sperimentando solo le prime scosse.


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