Un presidente «americano» per l’Afghanistan che verrà 

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Mentre Obama, in vista delle elezioni presidenziali, assicura ai suoi elettori che porterà  le truppe a casa entro il 2014 (tranne venti-trenta mila uomini delle forze speciali distribuiti, pare, su sei basi militari), la Cia mette lo zampino nelle prossime elezioni afghane. E lo fa nel modo che più le è congeniale: senza trasparenza, in modo scorretto, affidandosi alle armi seduttive dell’informazione asservita, quel che una volta andava sotto il nome di propaganda. 
A fargli da spalla questa volta è infatti un giornale blasonato come il Washington Post, che martedì scorso ha ospitato un editoriale di Michael O’Hanlon, presentato come senior fellow alla Brookings Institution e coautore, insieme a Martin Indyk e Kenneth Lieberthal, del recente Bending History: Barack Obama’s Foreign Policy. Peccato che il giornale americano dimentichi di aggiungere – come ha notato Joshua Foust sul sito www.registan.net – che O’Hanlon è stato analista per la sicurezza nazionale al Congressional Budget Office e attualmente è membro della External Advisory Board del Generale Petraeus alla Cia. 
Grazie alla compiacenza del Washington Post, il consulente dei servizi segreti ha potuto presentare ai lettori la sua soluzione per le presidenziali che si terranno nel 2014, quando scadrà  il mandato di Hamid Karzai. «Scegliere un vincitore in Afghanistan», questo il titolo e il succo dell’articolo di O’Hanlon, che invita gli Stati Uniti «a fare qualunque cosa per garantire che sia un riformatore a vincere le elezioni», così da evitare che «gli aiuti vadano persi, che l’economia afghana regredisca», che scoppi una «nuova guerra civile» e che «i Talebani o Al-Qaeda prendano il controllo di ampie parti del paese». I nomi degli eventuali presidenti taumaturghi sono prevedibili, candidati con poco consenso nel paese ma con appoggi nelle cancellerie occidentali, perché considerati più liberali rispetto ad altri: Hanif Atmar, già  ministro dell’Educazione e dell’Interno; il “tecnocrate” Ashraf Ghani, ora a capo del processo di transizione della sicurezza dalle mani internazionali a quelle afghane; Abdullah Abdullah, già  ministro degli Esteri e principale sfidante di Karzai alle ultime elezioni. 
Oltre alla forma (quella di un giornale che ospita un editoriale di un consulente della Cia senza che i propri lettori lo sappiano), c’è anche un problema di sostanza: O’Hanlon non solo ammette di non preoccuparsi di quanti obiettano che sia controproducente interferire negli affari altrui, ma sembra credere che tutti i problemi dell’Afghanistan possano essere risolti da un presidente illuminato: nessun accenno a quali siano le riforme che un «riformate moderato» debba realizzare, nulla su un’architettura politico-istituzionale talmente dipendente dalla corruzione che, come spiega lo studioso Antonio Giustozzi, «ogni tentativo di riformarla vorrebbe dire far cadere l’interno edificio»; nulla sugli strumenti con cui risolvere la controversia con i movimenti anti-governativi, certo poco inclini a deporre le armi a un «moderato» liberale.
Se su questo punto O’Hanlon ha nicchiato, Karzai invece non si è tirato indietro, e due giorni fa, tornando a chiamare «fratelli» i Talebani, ha invitato il mullah Omar a deporre le armi, e perfino a presentarsi come candidato alle prossime presidenziali. «Saranno poi gli elettori a decidere», ha spiegato Karzai. 
Per ora però i Talebani continuano a negare ogni negoziato. E fanno sapere di essere preoccupati e contrariati per una recente notizia che riguarda proprio gli americani, resa nota il 9 luglio dal Times di Londra: nonostante un memorandum d’intesa firmato mesi fa tra Washington e Kabul stabilisca che tutti i detenuti nelle carceri passino nelle mani degli afghani, gli Stati Uniti continueranno a mantenere il controllo di una cinquantina di prigionieri non afghani trattenuti nel Detention Facility della base di Bagram, già  noto come «la Guantanamo afghana».
Gli americani sostengono che l’accordo si riferisse soltanto ai cittadini di nazionalità  afghana; gli afghani replicano che la sovranità , per essere tale, dev’essere completa, senza eccezioni. Le associazioni per i diritti umani avvertono che, come già  documentato in passato, possano ripetersi abusi e torture sui detenuti.


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