COSàŒ ADELPHI PROMUOVE 007 PER IL DOPO MAIGRET L’ULTIMA DI AVVENTURA

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Dimenticate gli aromi della cucina della signora Maigret, il profumo del sigaro del commissario, le nebbie parigine e provinciali dei suoi umanissimi casi, le storie sul filo del rasoio morale dei personaggi che Georges Simenon inventava solo per metterli nei guai.
Ora che la casa editrice Adelphi ha concluso la pubblicazione dei polizieschi del grande belga (e così francese) Georges Simenon, a seguire Maigret entra in scena nel suo catalogo, avvolto in una nuvola di Martini e Dom Perignon, un altro personaggio della moderna mitologia popolare. Un altro profilo umano noto anche a chi non ha mai letto un libro che lo veda protagonista. Un “eroe” violento, testosteronico, sensuale, duro, agli antipodi del casalingo Maigret per cultura e scrittura. Un alfiere dell’Occidente della guerra fredda, che ci accompagnerà  nelle edizioni Adelphi con due libri all’anno, per quattordici titoli, dodici romanzi e due raccolte di racconti. Messo in confezione lusso da un editore abilissimo nel rilanciare anche prodotti midcult.
Perché? Come disse Sir Edmund Hillary del suo Everest, anche di lui, James Bond, 007, si può dire “perché è là ”: bello, famoso e ora, allo scadere dei precedenti contratti editoriali, disponibile: James Bond, che arriva in questi giorni in libreria con la sua prima celeberrima avventura,
Casino Royale
(pagg. 227, euro 16, traduzione di Massimo Bocchiola, postfazione di Matteo Codignola).
Una avventura celeberrima per via del titolo, che è più noto del suo contenuto: perché, cinematograficamente parlando, la storia di questo libro è sempre stata tradita, a partire dal primo, bizzarro
James Bond 007 – Casino Royale,
del 1967, in cui hanno fatto esercizio d’ironia su 007 e il suo mondo una squadra di registi capitanati da John Huston e un concerto di attori che va da Peter Sellers a Woody Allen. Per continuare con il più recente
Casino Royale
del 2006, ventunesimo episodio della serie, con Daniel Craig nel ruolo di 007, e una storia molto più aggrovigliata di quanto non sia l’originale.
A proposito dell’originale: è interessante vedere come le traduzioni possano variare, anche quando a farle è la stessa persona, seppure in tempi diversi. Scriveva Fleming ad apertura di libro: «The scent and smoke and sweat of a casino are nauseating at three in the morning. Then the soul erosion produced by high gambling – a compost of greed and fear and nervous tension – becomes
unbearable and the senses awake and revolt from it». La traduzione del 2004 per Guanda, firmata anch’essa da Bocchiola, diceva : «Alle tre del mattino, il fumo e il sudore danno la nausea. A quell’ora il logorio interiore tipico del gioco d’azzardo – misto di avidità , paura e tensione nervosa – diventa intollerabile ». Nel 2012 l’incipit diventa: «Fumo, sudore: alle tre del mattino l’odore di un casino dove si gioca forte è nauseante. Di fatto, il logorio interiore tipico dell’azzardo – un misto di avidità , paura e tensione – diventa intollerabile». Insomma, non è soltanto vero che “poetry is what gets lost in translation”, non è solo la poesia a perdersi nella traduzione.
Anche la prosa cambia, provando che si può tradurre bene in modi diversi.
Traduzioni tormentate, dunque, per un incipit tormentato. Le prime righe di
Casino Royale,
che Ian Fleming batté sulla sua vecchia Imperial portatile nel 1952, nel suo rifugio in Giamaica, dopo una nuotata e un breakfast molto britannico, non sono venute facilmente. Prima Fleming scrisse: «Gli odori e il fumo colpiscono le papille con un colpo acido alle tre del mattino». Poi «Gli odori e il fumo e il sudore possono improvvisamente combinarsi e colpire le papille con uno shock acido alle tre del mattino». Infine arrivò l’incipit che conosciamo. E che di un sol colpo dà  tutta l’atmosfera di questo strano romanzo dove non succede quasi nulla, al di là  di una gara ansiogena, piena di suspense,
brutale, a farsi fuori a colpi di baccarat per il re o per la patria in un elegante casinò della costa atlantica, qui James Bond, là  Le Chiffre, campioni dei due mondi. Bond, Orazio del MI6 e del mondo occidentale, dei suoi consumistici valori, delle sue libertà , godereccio, frivolo, vanesio. Le Chiffre, Curiazio dell’Est e della Smersh, crudele, sadico, temibilissimo. E be’ sì, c’è nel romanzo anche una signora, molto chic, molto bruna, vestita in velluto nero di Dior e vista al solito modo maschilista di Bond: «Era una donna, e quindi se la voleva portare a letto». La bella, condividendo i destini infelici di molte Bond Girls, sparisce. «È morta, la puttana» , conclude garbatamente Bond, a pag. 197, echeggiando il finale del coetaneo e altrettanto misogino
I the jury,
di Mickey Spillane, dove
Mike Hammer, dopo aver ucciso la perfida Charlotte, diceva pacato, a mo’ di spiegazione: «È stato facile». Con
Casino RoyaleIan
Fleming – nipote di un banchiere scozzese, figlio di un grande eroe di guerra, fratello di un piccolo mostro di perfezione, studente non eccellente di Eton e dell’Accademia militare di Sandhurst, con studi riparatori a Kitzbuhel, lettore vorace, bibliofilo, seduttore compulsivo, giornalista alla
Reuters(
per mancanza di un migliore destino), bancario, poi finalmente funzionario del Foreign Office, per il quale, da una stanzetta di Whitehall, per tutta la guerra immaginò e mise in azione macchinazioni diaboliche ai danni del nemico – avrebbe cominciato una nuova vita. Scoperta la bellezza della Giamaica e acquistata Goldeneye, una piccola casa fascinosa
sull’acqua, ci andò ad abitare con la signora di cui si era innamorato e che, in attesa del divorzio, aspettava un bambino da lui.
Di bambini, in quel 1952 di sessant’anni fa, ne nacquero due: Caspar , destinato a una brutta fine per overdose, e James Bond, dal radioso destino. Con 007 Fleming avrebbe convissuto fino al 1964, alternando il suo mestiere di columnist mondano dalla scrittura brillante a quello di scrittore, nei due mesi che ogni anno passava in Giamaica a scrivere uno dei quattordici romanzi dedicati a James Bond.
Poi il cinema scoprì James Bond. Fleming, secondo cui Bond assomigliava al bel Hoagy Carmichael, il compositore di
Stardust,
avrebbe visti giusti per il ruolo David Niven e Roger Moore. Ma il produttore Mr. Broccoli per la parte di colui che
lo scrittore vedeva come un suo alter ego scelse Sean Connery, e per Fleming, dicono i suoi biografi, ci fu un altro modello pesante con cui confrontarsi.
Fleming morirà  nel 1964 di una dieta di sigarette, alcool e burro, offuscato dal suo eroe. Che nel frattempo, ormai maturato, spopolava, fascinoso e divertente: come non riesce ad essere, a dispetto dei Martini, dello champagne, dell’eleganza sportiva, della Bentley da quattro litri e mezzo, l’Ur-Bond un po’ rigido, ossessivo, monomaniaco (per il gioco), brutalmente misogino, non ancora compiutamente se stesso, di
Casino Royale.


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