Ma i soldi chi li gestisce?

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«A Tokyo, si cercherà  di riempire un piatto ancora vuoto». Per Abdul Khaliq Stanikzai, coordinatore per l’area occidentale dell’organizzazione non governativa afghana Sanayee Development, è questo l’obiettivo principale della conferenza dei donatori di Tokyo: dare seguito agli impegni assunti lo scorso 5 dicembre, nel corso della Conferenza di Bonn sull’Afghanistan. In quell’occasione, tutti si erano trovati d’accordo nel dire che i dieci anni successivi al ritiro delle truppe Isaf-Nato sarebbero dovuti servire alla «trasformazione». 
In altri termini, per «lanciare lo sviluppo economico, mettere in piedi le infrastrutture, migliorare i meccanismi istituzionali e della governance: tutto ciò che la comunità  internazionale avrebbe dovuto fare, che aveva promesso e che invece non ha fatto, finora», argomenta Stanikzai, che incontro nel suo ufficio di Herat. Per farlo, la comunità  internazionale ha deciso di mettere sul piatto della bilancia circa 4 miliardi di dollari l’anno.
Le cose di cui c’è bisogno
«Ma al di là  delle cifre, tutto dipende da come verranno gestiti questi soldi – sostiene Aziza Khairandish – responsabile del Civil Society and Human Rights Network per la provincia di Herat. Perché non si tratta soltanto di dare soldi, di promettere aiuti, ma di trovare meccanismi certi e trasparenti per assicurarsi che vengano impiegati per le cose di cui c’è realmente bisogno, in modo tale che i cittadini possano sapere cosa è stato speso e per cosa». Per questo, i donatori torneranno a chiedere garanzie di trasparenza al governo afghano, viziato da corruzione endemica, e quest’ultimo ribatterà  di aspettarsi che la gran parte dei finanziamenti passi per le istituzioni statali, finora largamente estromesse dalla gestione dei soldi. 
A guardar bene ci sono buone ragioni da ambedue le parti. «La comunità  internazionale fa bene a chiedere garanzie al governo – sostiene Rafiq Sharir, a capo della Shura (il consiglio) dei professionisti di Herat -; il governo è del tutto corrotto, in ogni sua componente. Ha avuto il sostegno della comunità  internazionale per dieci anni e non è riuscito a gestirlo, ad approfittarne, perdendo un’occasione importante». Per Sharir, che è stato per qualche mese parlamentare, prima che una decisione presidenziale decidesse che doveva lasciare lo scranno, «ci sarebbe bisogno di un cambiamento politico vero, senza il quale sarà  tutto inutile». 
Chi lavora all’interno delle istituzioni afghane, pur riconoscendo la corruzione dilagante, ritiene invece che gli aiuti rischiano di essere inutili se non passeranno per i canali istituzionali, per quanto ancora fragili.
Una situazione ingestibile
La pensa così, per esempio, Abdul Naser Aswadi, direttore del Dipartimento economico della provincia di Herat: «Nella nostra provincia le cose funzionano piuttosto bene, perché c’è un coordinamento effettivo tra i donatori internazionali, il nostro Dipartimento, il Provincial Development Committee (Comitato per lo sviluppo provinciale), l’ufficio del Governatore. Ma altrove la situazione è davvero ingestibile: in alcuni casi neanche i Governatori sanno quali attività  vengano svolte – e da chi – nei loro territori». 
Una situazione che per Aswadi ha allargato il divario tra il governo e la popolazione: «La gente ritiene che la montagna di soldi degli aiuti sia finita nelle mani del governo, che sia il governo a decidere come spenderli. Invece il 90% passa per altri canali. La popolazione, non vedendo risultati concreti, ha perso fiducia nella buona volontà  e nella capacità  del governo. Farebbe meglio a chiedere conto anche agli attori internazionali; anche lì d’altronde la corruzione non manca», conclude Aswadi. Anche per Naser Moin, docente di Economia all’Università  di Herat, «la corruzione non riguarda solo gli afghani». Quanto agli aiuti destinati all’Afghanistan, «4-5 miliardi non sono pochi, al contrario. Ma diventeranno qualcosa di concreto soltanto se verranno gestiti dal governo centrale, e non dai paesi stranieri attraverso le organizzazioni internazionali. Su questo, la comunità  internazionale dovrebbe fare un passo indietro, restituendo sovranità  al governo e alla società  afghana. Che si limiti a monitorare la situazione. Per il resto, sapremo gestircela da soli».


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