Fiat, nel mirino Cassino e Pomigliano

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TORINO â€” La crisi durerà  troppo a lungo per poter tenere aperti tutti gli stabilimenti Fiat in Italia nelle attuali condizioni. Il messaggio di Sergio Marchionne, martedì sera, al lancio della 500 L, è di quelli che spaventano. Dopo il sacrificio di Termini Imerese (1.500 addetti, ancor oggi formalmente alle dipendenze del Lingotto) un’altra fabbrica rischia la stessa fine. Il che significa altri 4-5.000 posti a rischio. Per tre volte Marchionne non ha risposto alla domanda di fondo: «Quando deciderete se la chiusura di un altro stabilimento è davvero inevitabile? ». L’assenza di risposta è il segnale più evidente del fatto che al Lingotto non hanno ancora deciso. E che si stanno valutando diverse possibilità . Almeno quattro.
L’accorpamento di Cassino. E’ un’idea che era già  stata studiata ai tempi di Giuseppe Morchio, uno degli amministratori delegati della Fiat in crisi dei primi anni Duemila. Prevede di trasferire produzioni e personale da Cassino a Pomigliano creando un unico polo produttivo. Non tutti, però, verrebbero trasferiti. Si tratterebbe di portare nello stabilimento campano circa metà  degli attuali 3.940 dipendenti di quello laziale. A Cassino oggi si producono tre modelli: la Bravo, ormai vicina al pensionamento e con gli investimenti per l’erede sospesi dal Lingotto proprio nei giorni scorsi; la Delta, anche lei non giovanissima, che aspetta un’erede o almeno un restyling. La Giulietta, che è l’unico modello davvero in grado di fare volumi. Ciascuno dei tre modelli o dei loro eredi potrebbe essere realizzato in un altro stabilimento sulla piattaforma C. Rimarrebbero in questo caso in esubero circa 2.000 dipendenti di Cassino ai quali si aggiungerebbero i 2.000 di Pomigliano che oggi sono in cassa integrazione.
La produzione per gli Usa. E’ l’ipotesi ripetuta martedì sera da Marchionne. Non si tratta solo di produrre negli stabilimenti italiani automobili destinate al mercato europeo e a quelli del Nordamerica. Ma anche di realizzare in Italia modelli destinati solo ai mercati americani con i marchi del gruppo Chrysler. «Certamente — ha detto nei giorni scorsi Marchionne —
quando avremo saturato la capacità  produttiva degli stabilimenti del Nordamerica, non ne realizzeremo di nuovi». Se dunque il mercato Usa salirà  ancora, questa potrebbe essere una opportunità . A patto, sostiene l’ad, di avere la garanzia della pace sindacale nelle fabbriche della Penisola.
Il plant sharing. Lo stabilimento in affitto è un’altra delle ipotesi ventilate nelle scorse settimane dal manager di Torino. Mentre le case europee hanno un problema di sovracapacità  produttiva, quelle asiatiche, le uniche che guadagnano nel Vecchio Continente vendendo utilitarie, hanno bisogno di una testa di ponte in Europa. «Siamo disposti anche ad affittare gli impianti pur di mantenerli in vita », ha detto Marchionne a Venezia meno di un mese fa.
La nuova alleanza. Mentre ancora si discutono i tempi della fusione definitiva con Detroit c’è chi non esclude che l’ad del Lingotto stia cercando un nuovo partner con il quale condividere la scelta dolorosa di tagliare produzione. Si era ipotizzato un matrimonio con Peugeot che però, almeno in questa fase,
preferisce dialogare con Gm. O con un asiatica come Suzuki, pronta a tradire l’attuale socio Volkswagen. O, infine, proprio con un costruttore tedesco. Il quadro è molto incerto e i rischi sono troppi per non spingere sindacati e forze politiche a chiedere al governo di convocare il Lingotto per fare chiarezza. Ieri lo ha fatto la Fiom che con Giorgio Airaudo ha criticato «l’imbarazzante silenzio della politica sul fatto che si rischia di perdere l’industria dell’auto italiana. Senza impegni da parte della Fiat — ha sostenuto il sindacalista — è dovere del governo trovare altri costruttori ch vengano in Italia per non far morire una filiera che rappresenta ancora l’11 per cento del pil». Per il Fismic, molto forte a Cassino, lo stabilimento che rischia di sparire è quello di Torino: «Salvate il soldato Mirafiori», sintentizza Roberto Di Maulo. Mentre la Uilm, con Palombella dice che «gli stabilimenti italiani non corrono rischi. Li penalizza solo il mercato». Infine la Fim: «L’annuncio di Marchionne non è una novità , lavoriamo per un sano rapporto sindacale, fuori dalle aule dei tribunali».


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