L’ARTE DELL’IMPERFEZIONE DA PLATONE ALL’INDIA, LA METAMORFOSI DEL MODELLO IDEALE
Comincerò dai Greci. Nel mondo in cui nacquero Platone e i suoi compagni c’erano gli Dei. Ce n’erano molti, e la maggior parte di loro aveva poteri infiniti. Avevano forma umana e potevano dare sfogo a invidie umane, ma virtù e qualità degli uomini e delle donne erano stati portati fino all’estremo. Gli umani pieni di difetti che popolavano la terra erano stati traslati nell’Olimpo come esseri perfetti. Gli artisti dell’epoca di Platone e quelli del Rinascimento non lasciarono sul piano dell’astrazione le perfezioni di queste creature divine, ma si sforzarono di dare una forma visiva ai loro ideali. Quando guardiamo la Pietà di Michelangelo o la Cappella Sistina, guardiamo ai più alti esempi di questa ricerca volta a rendere visibile la perfezione. Gli artisti classici vedevano il mondo com’era, e tentavano di trasformare quel che era terreno e particolare nell’ideale perfetto. Ma l’arte non rimane mai ferma, e ben presto questa idea di perfezione avrebbe perso d’importanza.
Con l’ascesa delle religioni semitiche, le considerazioni di ordine morale prevalsero, e furono queste ad alterare l’idea classica di perfezione. La perfezione non ha a che fare con la mente o il corpo, ma con lo spirito, governato dalla legge morale. Anche la pittura religiosa cambia. Non cerca più di ritrarre la perfezione, ma racconta lo sforzo per raggiungerla. Ci siamo spostati dalla forma ideale, dalla qualità umana ideale, alla vita ideale. Coloro che raggiungono tale perfezione sono canonizzati come santi. Ce n’è di ogni forma e taglia: non devono essere necessariamente belli o muscolosi. È la loro vita esemplare a circonfonderli di un’aura di perfezione. La continuazione delle religioni semitiche nella forma dell’Islam sostituisce a questo l’imitazione della vita del Profeta in quanto uomo perfetto.
Se l’idea di perfezione si basa sulla fede, che cosa succede quando questa fede è indebolita o sconfitta da qualche altra corrente del pensiero? Si deve abbandonare l’idea di santità e del raggiungimento del Cielo, della vita eterna e perfetta, tramite il martirio. Dio è morto, come disse Nietzsche. Il progresso della scienza, intenta a osservare, misurare e sperimentare, è lontano dalla perfezione del Cristianesimo e dall’idea di sottomissione a Dio (che è la traduzione letterale della parola Islam).
Se lasciamo il Cristianesimo e l’Islam e guardiamo all’India, troviamo idee di perfezione differenti. Io sono cresciuto nella famiglia estesa di mia madre, una famiglia indù brahminica, in epoca coloniale. Le tradizioni e i testi epici facevano parte della vita. L’idea dell’India era sempre presente in casa. Nessuno pretendeva che
l’India fosse un modello di perfezione, ma, dato che costituiva il passato della famiglia, era considerata alla stregua di un ideale. Il mio secondo libro di viaggi, Un’area di tenebra, è stato scritto dopo un soggiorno di scoperta nel paese. E ciò che avevo scoperto era ben lontano da qualsiasi ideale, ed estraneo a qualsiasi idea di perfezione. Solo in seguito, studiando i grandi testi epici le cui storie avevo sentito da bambino, il Mahabarata e il Ramayana, compresi come l’idea indiana di perfezione fosse lontanissima da quella classica delle “qualità ideali” o da quella cristiana di una “vita perfettamente morale”.
Nell’epica indiana ci sono due idee chiave: il dharma e il karma.
Sono concetti relativi al dovere, inseparabili dall’idea di moralità propria di quell’universo.
Dharmaè l’essere chi sei. È legato al destino e al ruolo per cui sei nato, nella tua vita attuale. L’adempimento del tuo
dharma definisce il valore delle azioni che compi, ossia il karma.
E il karma determina la tua condizione alla successiva rinascita.
Il paradiso del Mahabarata, lo svarga, è un luogo cui possono accedere coloro che hanno adempiuto al loro dharmae hanno accumulato un karmapositivo, per condividere la vita degli Dei. L’idea dell’adempimento del dharma sostituisce
l’idea di perfezione.
Se si legge il grande poema epico dal punto di vista della perfezione e dell’imperfezione, si scopre che il discorso ha un risvolto filosofico molto profondo; troppo profondo per la maggior parte della gente. L’idea – che sta al cuore della Bhagavadgita–
è che fondamentalmente non esiste né morte né vita. Si tratta solo di illusioni generate dalla coscienza. Pensiamo, e perciò pensiamo di esistere. Ne deriva un’etica che può essere difficile da afferrare per la mente occidentale. In ultima analisi esiste solo un unico oceano dell’essere, da cui siamo stati separati in frammenti pieni di vanità , e in cui tutti dobbiamo infine dissolverci. La perfezione, insomma, nel messaggio vedantico è dissoluzione nell’oceano dell’essere.
Uno dei rimpianti che ho è quello di non aver cercato, negli anni passati, di leggere e comprendere maggiormente la letteratura scientifica. Invecchiando mi ritrovo davanti a scoperte incomprensibili che gravano su tutti noi. Non alludo ai gadget elettronici che lasciano sconcertato chiunque non appartenga alla generazione più giovane, e nemmeno alle indecifrabili istruzioni di cui al giorno d’oggi è provvisto qualunque aggeggio. Intendo le notizie e le ipotesi intorno ai neutrini. E poi il bosone di Higgs: che cos’è e che cosa ci dice riguardo alla natura dell’universo…
Pur privo delle minime basi, ho cominciato a leggere qualche libro divulgativo sulla fisica, e ultimamente sull’astronomia. Beninteso: la mia capacità di lettura in questi campi è deplorevolmente imperfetta. Ciò che tuttavia mi colpisce – e gli amici che di fisica e astronomia sanno qualcosa me lo confermano – è che più queste discipline si approfondiscono, più diventano imperfette.
Mi dicono che la descrizione newtoniana del mondo aveva in sé una sorta di perfezione conchiusa in se stessa. Poi, tra la fine dell’Ottocento e il Novecento, quel modello così elegante è stato messo in discussione e scartato.
Werner Heisenberg ha sviluppato quello che chiamava il Principio di indeterminazione, secondo cui non possiamo conoscere contemporaneamente la velocità e la posizione di una particella subatomica. L’imperfezione è connaturata alla percezione.
Adesso ci dicono che questo vale per tutti i fenomeni dell’universo. Richard Feynman, vincitore del Premio Nobel per la fisica, ha scritto un libro di sei “pezzi facili” sulla fisica moderna: ho provato a leggerli, ma, lo ammetto, non ce l’ho fatta. L’unica cosa che mi è rimasta di quella lettura è la raccomandazione di Feynman di non provare a concettualizzare ciò che la fisica moderna descrive. La mente umana, che può pensare solo in tre dimensioni, non riesce ad afferrarlo. Un’imperfezione connaturata?
Siamo tornati, allora, nel regno della Bhagavadgita, con la sua catena della coscienza? La cosa potrebbe suonare pressappoco così: «Penso, perciò scopro che non potrò mai scoprire la verità ». Non c’è, dunque, via di uscita dalle dimensioni dell’imperfezione. Non solo è così nella vita, non solo è così in amore: adesso è così anche nella fisica.
© 2012, V. S. Naipaul. V. S. Naipaul’s work is published by Adelphi
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