Quella dialettica aperta dal lavoro nei media

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E a ragion veduta: il pensiero adorniano sui media rassicura tutti, tranquillizza perché fa riconoscere in essi la causa dell’istupidimento delle masse e la creazione della disponibilità  con cui esse si consegnano ai vari totalitarismi di turno. Una riflessione che, al contrario, parta dal lavoro «concreto» fatto da Adorno nei media, richiede fatica e l’assunzione di un rischio: scoprire che le cose non stiano proprio cosi. E questo perché i fenomeni culturali, analizzati nella prospettiva materialistica del lavoro, acquistano una configurazione inedita. Come nel caso di Bertolt Brecht (a proposito del quale Gino Frezza in un recente convengo internazionale svoltosi a Roma Tre su Brecht e i media ha proposto la distinzione tra le due sfere), anche in quello di Adorno bisogna fare procedere la riflessione mantenendola sui due piani distinti, o meglio, solo su quello che ha ancora senso e può rivelare delle sorprese: quello del lavoro effettivo prestato nei media.
Una paternità  da condividere
La recente uscita di Essere ottimisti è da criminali. Una conversazione televisiva su Beckett (a cura di Gabriele Frasca, traduzione di Taddeo Roccasalda, l’ancora del mediterraneo, pp. 110, euro 12,50), offre l’occasione per affrontare il discorso. Autore del testo, naturalmente, risulta essere Adorno, però, ad aver animato la conversazione televisiva menzionata nel sottotitolo, sono stati anche ben altri quattro personaggi tutti muniti di un profilo culturale di altissimo livello, come puntualmente ci ricorda il curatore del volume nella sua postfazione. Assieme al filosofo c’erano: Hans-Geert Falkenberg, Walter Boehlich, Martin Esslin ed Ernst Fischer. Questi nomi, di certo, non diranno nulla al lettore italiano, ma è con essi che la «paternità » del testo deve eticamente essere condivisa, piuttosto che assegnata a quella del solo Adorno. Vediamo perché: Falkenberg ideò la trasmissione su Beckett, la condusse, scelse gli ospiti con grande perizia e li mediò per circa tre ore; Boehlich, allievo di antica data del grande filologo Ernst Robert Curtius, fece simbolicamente gravare sulla trasmissione l’eredità  e il superamento della cultura europea; Esslin mise a disposizione la sua conoscenza «tecnica» e personale di Beckett, visto che, da direttore della sezione radiodrammi della Bbc dal 1963, gli aveva commissionato dei lavori; Ernst Fischer, militante comunista e profondo conoscitore dell’opera beckettiana, rifiutò le interpretazioni negative dello scrittore irlandese date oltre muro da Lukà¡cs e, rimanendo sul terreno del marxismo, insistette sul rapporto di Beckett con le scienze matematiche. Si capisce che il ruolo di Adorno è solo uno dei tanti. Già  da qui, dal fatto di accettare di condividere lo spazio televisivo con altri e di non voler conquistare una posizione preminente, quindi, di non farsi «divo» della serata, si inizia a delineare il senso del lavoro adorniano nei media.
La trasmissione su Beckett fu organizzata così: in prima serata il 2 febbraio del 1968 il Westdeutscher Rundfunk, emittente televisiva della Repubblica federale tedesca, trasmise due lavori di Beckett, la registrazione di Comédie, una rappresentazione teatrale, e il mediometraggio Film (girato nel 1964 con Alan Schneider), a questi seguì il dibattito registrato nel mese di gennaio. 
Ora, per fare emergere il tipo di attività  svolta da Adorno, la dobbiamo necessariamente isolare dai «contenuti» discussi, che tutti gli amanti di Beckett leggendo il libro troveranno di grandissimo interesse. A contare sono dei piccoli e quasi impercettibili «gesti verbali» agiti. Il lavoro adorniano nei media lo si deve rintracciare negli interstizi, qui si aprono le crepe della sua teoria apocalittica sui media.
Trattandosi di mezzi di comunicazione di massa, ad essere cruciale è sempre il rapporto con il pubblico che li «consuma», sì proprio quel «soggetto» a cui Adorno e Max Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo avevano riservato un pessimo trattamento.
In uno dei passaggi della discussione Adorno dice: «non ritengo sia del tutto privo d’interesse per chi ci guarda e ci ascolta sapere come la pensi lo stesso Beckett a questo proposito». Mentre su questa premura nei confronti del telespettatore il lettore può procedere con cuor leggero, così non deve fare l’analista della comunicazione perché è in questo gesto, unito al rispetto per i limiti del proprio ruolo, che si può identificare il modello di lavoro maturato da Adorno nel corso delle sue performances. Quelli agiti durante il dibattito beckettiano, sono gesti che hanno una storia, sono il risultato di un processo. 
Siamo nel 1968 e prima di andare in televisione, Adorno aveva frequentato spesso studi radiofonici e quasi sempre con esiti disastrosi. Si pensi all’aggressività  della conversazione con Eugen Kogon del 4 settembre 1950 andata in onda per lo Hessischer Rundfunk; al tono didattico delle lezioni di sociologia per la Radio dell’Assia dal 1953 al 1954; agli stratagemmi retorici con cui si era imposto su Elias Canetti durante l’intervista del marzo 1962; ai rinnovati insulti contro gli utenti dell’industria culturale nelle trasmissioni del 28 marzo e del 4 aprile del 1963 sempre per la stazione Hessischer di Francoforte.
Dalla seconda metà  degli anni ’60 le cose cambiano. Se fino al 1963 il lavoro nei media traduce la teoria sui media, da qui l’aggressività  e il disprezzo che connotano il suo rapporto con i radioascoltatori, dopo il 1965 il tono si fa più rilassato. Come sostengono autorevoli specialisti (Martin Jay), dal 1966 con la pubblicazione del saggio Trasparencies of Film, Adorno, in seguito ai risultati del cinema tedesco sperimentale più radicale (Alexander Kluge), inizia a riconoscere «un potenziale critico nell’industria culturale dominate». È sull’onda di questo ripensamento, allora, che riformula il suo modello di lavoro nei media e consegue i risultati ottenuti nel corso della trasmissione su Beckett.
Strade da esplorare
Ai due gesti emersi, l’analista deve prestare ulteriore attenzione perché ciò che accade nei media ha una ricaduta politica immediata sulla teoria sociale. Nel caso di Adorno l’apertura nei confronti del pubblico vuol dire una cosa semplice e importante: invece di pensare di farla finita coi media, è più creativo lottare per «occuparli» con strategie di lavoro efficaci. Non a caso, dopo la trasmissione, in una lettera a Falkenberg, Adorno afferma che si possono aprire per la tv strade «non ancora esplorate». 
Il curatore di Essere ottimisti è criminale, chiude il volume con stralci di brani tratti dall’adorniana Teoria estetica nei quali si prosegue la riflessione su Beckett. Scelta condivisibile, ma se si pensa che ad aver riorientato il modello di lavoro nei media sia stato il cinema, allora, sarebbe il caso di leggere il libro rileggendo l’Opera d’arte di Walter Benjamin. Dopo trent’anni di resistenze Adorno finalmente cede ad uno dei principi più significativi del marxismo mediologico lì formulato: lavorare per rendere vicino ciò che è lontano. Beckett prima di tutto.


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