Un voto modello roulette

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Domenica, 80 milioni di messicani, su una popolazione di 112, potranno votare per un nuovo presidente, 500 deputati, 128 senatori. Inoltre, in 15 dei 32 stati che formano la Repubblica, si rinnoveranno i parlamenti locali, in sette stati i governatori – Guanajuato, Jalisco, Distretto Federale (Città  del Messico), Morelos, Chiapas, Tabasco, Yucatà¡n – e nel 72% dei 2.445 municipi del paese si eleggeranno nuove autorità  comunali. 
Una giornata cruciale per un paese stremato dal malgoverno, attraversato da una profonda crisi sociale e sommerso nel sangue di una guerra al narcotraffico che, malgrado le decine di migliaia di morti, non ha neanche scalfito il potere dei cartelli della droga. Una giornata dall’esito incerto a cui si arriva con inquietudine, con l’ombra dei brogli che volteggia sulle teste degli elettori, presenza costante nelle elezioni messicane.
L’unica certezza è che il Pan, il Partido de Accià³n Nacional della destra clericale e faccendiera al governo dal 2000, verrà  fortemente castigato dall’elettorato per tutte le privazioni e i dolori che ha imposto al paese. La sua candidata, Josefina Và¡zquez Mota, non può aspirare a più del terzo posto. 
Fra i due maggiori contendenti – Là³pez Obrador, il candidato della sinistra in costante ascesa nell’ultimo mese, e Peà±a Nieto, la faccia del «nuovo» Pri in caduta libera -si è arrivati al pareggio e forse al sorpasso. Anche se i sondaggi delle grandi società  di inchiesta insistono sul vantaggio di Peà±a Nieto, le piazze e le reti sociali dicono il contrario. E la reputazione di chi fa i sondaggi è talmente dubbia che il 70 per cento della gente non si lascia intervistare. 
Il Partido Revolucionario Institucional, che si sentiva già  la presidenza in tasca, sta dando segni di grande nervosismo al trovarsi di fronte a una situazione inaspettata e, oltre ad aver riesumato la guerra sporca sul piano della propaganda – specialmente quella televisiva – nell’ultima parte della campagna, ha riattivato le vecchie pratiche, in realtà  mai smesse, della compera e della coazione del voto. 
Il voto corporativo, che si credeva un retaggio del passato, quando le centrali sindacali filogovernative offrivano in blocco i voti dei loro iscritti al candidato del regime, è ricomparso. Elba Esther Gordillo, segretaria vitalizia del sindacato magisteriale e padrona del partito Nueva Alianza, ha promesso cinque milioni di voti al Pri. E, di fatto, nelle elezioni del 2006 la maestra Gordillo è stata un fattore decisivo nella vittoria del Pan, grazie al controllo che gli iscritti al suo sindacato hanno esercitato sullo spoglio delle schede in migliaia di seggi.
Cominciano ad accumularsi denunce di irregolarità . Migliaia di schede duplicate sono apparse nello stato di Oaxaca e un po’ dovunque sono stati scoperti magazzini del Pri pieni di «omaggi» – generi alimentari, materiali da costruzione, attrezzi – per gli elettori. Il Pri è stato anche denunciato per distribuire schede magnetiche di grandi magazzini il cui credito si attiverebbe a votazioni concluse. Di fronte a queste denunce – e ad altre che riguardavano la trasmissione di spot diffamatori contro qualche candidato – l’Ife (Instituto Federal Electoral), di cui quasi la metà  dell’elettorato non si fida, ha sempre reagito in maniera tiepida e tardiva.
La pratica della frode elettorale, elevata a livello di arte nei decenni di dominio del Pri, ha dirottato per ben due volte – nel 1988 e nel 2006 – la volontà  popolare espressa nelle urne, impedendo l’accesso della sinistra al governo. Nel 2006, la forza delle proteste postelettorali che occuparono il centro della città  per 50 giorni riuscì a far ricontare i voti, se non di tutte urne almeno di un campione del dieci per cento. Quello che si trovò somigliava a un museo degli orrori: le cifre degli atti non corrispondevano mai al numero delle schede, molte schede invalidate erano validissime, alcune non erano state neanche piegate, segno evidente che non erano mai entrate nell’urna. Malgrado ciò, e pur riconoscendo le intromissioni indebite nell’elezione di numerosi industriali e dello stesso presidente, il tribunale elettorale convalidò il risultato. Sette giudici, invece dei 70 milioni di aventi diritto al voto, decisero chi avrebbe governato il paese.
Oggi, di fronte alla nuova avanzata delle sinistre, l’establishment è innervosito dallo sviluppo imprevisto e pronto a tutto pur di non mollare il potere a un caudillo populista, un «messia tropicale», come stigmatizzano Amlo. 
Ai metodi di compera del voto già  conosciuti se ne è aggiunto uno nuovo, lo chiamano la roulette: l’elettore va in una casa vicino al seggio, lì gli danno una scheda già  marcata per il Pri. Nel votare l’elettore consegna la scheda già  marcata ed esce dal seggio con la scheda in bianco che, riportata nella casa di partenza, gli vale fra i mille e i duemila pesos (50-100 euro).
Anziché ammonire i partiti – in questo caso il Pri – che utilizzano metodi apertamente illegali nell’induzione del voto, l’Instituto Federal Electoral non ha trovato di meglio che chiedere ai quattro candidati di firmare un «accordo di civiltà » con cui si impegnano a rispettare i risultati delle elezioni e a non inscenare proteste postelettorali. Era una richiesta con dedica, rivolta ovviamente a Là³pez Obrador con l’intenzione di fargli firmare un assegno in bianco sul comportamento dello stesso Ife, che come arbitro non sembra né efficiente né imparziale e, in questo modo, «si fascia il dito prima del taglio», come è stato detto con un’indovinata immagine.
L’idea dell’accordo di civiltà , guarda caso, era venuta dal Consejo Coordinador Empresarial, l’equivalente della Confindustria, che nel 2006 avversò Amlo con ogni mezzo.
Intanto, il movimento Yo Soy 132 ha inscenato varie catene umane circondando Televisa, Telmex, Banamex e altre istituzioni. Questi atti, dicono, fanno parte di una Cadena Nacional por una Democracia Real. Per oggi, vigilia delle votazioni, il movimento ha indetto una manifestazione «totalmente apartitica e pacifica, che non violerà  la veda electoral ma reclamerà  educazione, democrazia e trasparenza dei media».


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