Superare i campi rom, tra antichi pregiudizi e nuove soluzioni

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Ed è proprio sui campi che si apre il confronto-scontro maggiore tra istituzioni e operatori sociali dato che, mentre in altre regioni si cominciano a sperimentare soluzioni alternative per un loro superamento, nel Lazio e soprattutto a Roma se ne aprono di nuovi, sempre più grandi, sempre più lontani e isolati dal contesto cittadino. Con conseguenti sgomberi e trasferimenti, dichiarazioni di “stati di emergenza”, piani ad hoc, ed enormi dispendi di denaro pubblico dai contorni che le associazioni di volontariato spesso definiscono poco chiari.

Nicola Valentino, autore del libro “I ghetti per i rom” edito dalla cooperativa Sensibili alle foglie, definisce questi nuovi super-campi come dei veri e propri “ghetti”, e fornisce due esempi dal passato: il primo è il ghetto della Venezia del 1516, “una struttura recintata con due sole porte, sorvegliata da una polizia preposta, e controllata dall’alto, dal potere politico”; il secondo sono i ghetti per i rom di Colonia e Berlino nella Germania del 1933 e del 1936, istituiti dai nazisti fuori dal centro urbano, anch’essi chiusi e sorvegliati. Lo scopo di allora: concentrare i rom in un unico luogo per far fronte alla “piaga zingari”. Suona familiare?

“Non solo siamo l’unica nazione che istituzionalizza questi ghetti – continua Mariangela De Blasi – ma così facendo alimentiamo un sistema che non ha un preciso status giuridico”. A Roma, così come in altre città  italiane, esistono infatti diversi tipi di campi: quelli abusivi, che con gli sgomberi forzati senza le opportune alternative si sono ovviamente moltiplicati; quelli “tollerati” ma sempre privi di servizi adeguati; quelli grandi e attrezzati, come dovrebbe essere il nuovo villaggio di La Barbuta e come è stato quello di via Candoni (oggi nel degrado più totale); le baraccopoli miste, in cui sono presenti non solo i rom ma persone che provengono da diversi ambiti della marginalità  sociale. “Sono luoghi che godono di una certa extraterritorialità , con regole e regolamenti spesso in contrasto con la legislazione nazionale. Il loro superamento dev’essere un obiettivo comune e irrinunciabile, con assunzioni di responsabilità  da parte di tutti: istituzioni, operatori e gli stessi rom”.

Come si superano però i campi rom? Gli operatori romani propongono un percorso complessivo che comprende: l’inserimento e l’impegno sociale attraverso l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, l’inserimento abitativo, quello scolastico e quello lavorativo. Se su quello scolastico molti passi avanti sono stati fatti, sugli altri la strada è ancora lunga. “Il comune di Roma ha stanziato 30 milioni per interventi meramente ghettizzanti, di cui 3 milioni spesi solo per la vigilanza – spiega Salvatore Di Maggio, presidente Cooperativa Ermes, durante un incontro organizzato a Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma – Soprattutto gli stessi rom non sono mai stati interpellati”. È d’accordo Mirko Grga, operatore rom e abitante del campo di via Salviati: “Sarebbe opportuno – spiega – preparare noi comunità  rom e sinti ad autorappresentarci. Ogni municipio che ha al suo interno i rom potrebbe organizzare degli incontri e aiutarci a costruire una rappresentanza anche all’interno delle istituzioni, evitando di nominarla e imporla dall’alto. Così si può costruire un dialogo proficuo e uscire da questo vicolo cieco. Molti ci vorrebbero cacciare, ma dove? Su un altro pianeta? D’altronde siamo in Europa da secoli, e molti di noi sono italiani da generazioni”.

È l’inserimento abitativo il problema maggiore: “La politica e i media hanno alimentato un clima di caccia alle streghe tale per cui nessun cittadino vuole affittare ai rom, anche se ci sono famiglie che avrebbero le disponibilità  economiche” afferma il presidente di Arci Solidarietà  Valerio Tursi. Per quanto riguarda l’accesso alle case popolari, poi, serve non solo la cittadinanza, ma anche l’attestazione di sfratto. Peccato che lo “sgombero” non figuri tra le ipotesi. Infine c’è il problema di fondo, ovvero il blocco generale dell’edilizia popolare e delle politiche della casa a Roma. Così, il luogo comune: “Non ci sono case per i romani, perchè darle ai rom?” la fa da padrone.

Eppure altrove i modelli alternativi al campo esistono o si stanno cominciando a sperimentare. A Cagliari, ad esempio, la giunta sta cominciando ad assegnare degli alloggi (case “vere”) ai rom cagliaritani: alcuni nuclei familiari, che non sono in uno stato di disagio economico, hanno già  firmato i contratti di locazione, mentre chi non riesce a pagarlo verrà  aiutato dalla Caritas, il tutto tramite un fondo regionale destinato a loro dal principio. In Trentino, da anni si parla di microaree per le famiglie rom, con una zona centrale comune con cucina e servizi igienici circondata da roulotte. Soluzione che però non piace ad esempio alla Federazione Romanì, per la quale tutte le soluzioni “differenziate” sono comunque discriminanti e segreganti. In Abruzzo molti rom addirittura dagli anni ‘60 vivono in civili abitazioni di proprietà  oppure in affitto. Insomma, chi più chi meno, in diverse zone d’Italia si è ormai capito che il campo non è più una soluzione sostenibile, a livello storico, civile ma anche economico.

Tranne a Roma, dove la settimana scorsa sono cominciate le procedure d’ingresso all’interno del nuovo “villaggio attrezzato” la Barbuta, mega-struttura situata vicino all’aeroporto di Ciampino (e quindi totalmente fuori dal contesto urbano cittadino) costata oltre 10 milioni di euro e destinata a accogliere circa 650 persone rom. “Una scelta che condanna ancora una volta il futuro dei bambini e dei ragazzi rom – scrive in un comunicato l’associazione 21 luglio, che si occupa di diritti dei rom – oscurando con una coltre di discriminazione istituzionale tutti i loro sogni e le loro speranze”.


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