«L’appunto sul 41 bis, firmai senza leggere»

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Accadeva il 6 dicembre scorso, in un ufficio della Procura di Palermo, quando i magistrati che indagano sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi interrogavano il quasi ottantanovenne Adalberto Capriotti, magistrato in pensione, nominato capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a giugno del ’93, tra la bomba mafiosa scoppiata a Firenze e quelle esplose a Milano e Roma. Bombe che, secondo gli inquirenti, reclamavano un allentamento del «carcere duro» per i boss introdotto con l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario.
Il documento sul quale si sospettava che l’anziano testimone non dicesse tutta la verità  è l’ormai famoso appunto del 26 giugno 1993, firmato proprio da Capriotti e indirizzato all’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso. Quello in cui si proponeva di non prorogare gli oltre trecento «41 bis» che sarebbero scaduti di lì alla fine dell’anno (a parte casi particolari), per «non inasprire ulteriormente il clima all’interno degli istituti» e dare «un segnale positivo di distensione». In pratica ciò che fece Conso all’inizio di novembre, sostenendo di aver preso «in solitudine» ogni decisione.
Capriotti ricorda poco o nulla di quell’appunto: «Io era quattro giorni che stavo lì». Il pm lo sollecita: «Allora o lei ci dice che questa cosa l’ha firmata sostanzialmente nella inconsapevolezza… », e Capriotti l’interrompe, confermando: «Assoluta!». Il pm continua: «Senza leggere quello che ha firmato… », e Capriotti ribadisce: «Assoluta!». Ma il pm offre un’alternativa: «Oppure ci deve dire che le ha prospettato questa possibilità ». E stavolta Capriotti fa un nome: «Ci sono lì, nella firma, è Di Maggio».
In realtà , sull’appunto firmato da Capriotti c’è un’annotazione dell’ex capo di gabinetto di Conso, Livia Pomodoro, da cui si apprende che sulla questione era stato chiesto «un aggiornamento a Di Maggio».
Ma proprio la Pomodoro ha verbalizzato: «Nulla posso riferire circa l’esito della richiesta perché non ricordo di aver visto alcuna nota di risposta». Invece Capriotti tira in ballo Francesco Di Maggio, morto nel 1996, nominato suo vice senza che lui ne sapesse niente: «Non lo conoscevo… È stata una nomina politica… », aggiungendo che l’indicazione, secondo lui, arrivò dal ministero dell’Interno e in particolare dal capo della polizia Vincenzo Parisi, che aveva un trascorso nei servizi segreti.
Capriotti spiega di non aver avuto buoni rapporti con Di Maggio, poiché aveva «un carattere impossibile e irrefrenabile», tendeva a scavalcarlo e fare di testa sua. E ricorda che il suo vice ebbe liti «violentissime» col ministro Conso, «lo insultava, e io non potevo permetterlo», ma non sa dire su quali questioni.
Liti molto ridimensionate dallo stesso Conso, ma per Capriotti inaccettabili. Tuttavia l’eventuale allontanamento di Di Maggio era impossibile: «Perché l’autorità  di questo personaggio andava al di sopra», legittimata «proprio dal capo della polizia».
Il misterioso appunto che Capriotti sostiene di aver sottoscritto a sua insaputa, fu redatto materialmente da un altro magistrato in servizio del Dap, Andrea Calabria. Il quale ai pm ha confermato la «notoria esistenza di contrasti tra il ministro Conso e il dottor Di Maggio, che indusse in due diverse occasioni, tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, il dottor Di Maggio a rassegnare (con proposta respinta dal ministro Conso) le sue dimissioni».
Le liti riguardavano «problematiche concernenti l’utilizzo del personale penitenziario». La proposta di diminuire i provvedimenti di «carcere duro» per dare un segnale di distensione, invece, sarebbe derivata principalmente da una sentenza della Corte costituzionale del luglio ’93, che richiedeva motivazioni più stringenti. E al Dap, secondo Calabria, erano tutti d’accordo: «Non mi risulta che siano insorti contrasti di alcun tipo in merito all’orientamento di lasciare scadere la vigenza di quei decreti per i quali non fossero intervenute specifiche ed esaustive indicazioni di segno contrario». Niente a che vedere con la trattativa, insomma, anche se gli inquirenti la pensano diversamente. Nel frattempo, sia Conso che Capriotti sono stati inquisiti per il reato di «false informazioni al pubblico ministero».


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