Se Israele caccia i rifugiati
«Dovendo scegliere tra l’essere chiamato ‘un liberale illuminato’ senza Stato ebraico e sionista, ed essere chiamato un ‘razzista ottenebrato’, ma considerato un cittadino orgoglioso, io scelgo la seconda. L’era degli slogan è finita, l’era dell’azione è cominciata». Così si esprimeva qualche giorno fa il ministro degli interni Eli Yishai.
Dalle parole si è passati ai fatti. Nella notte tra domenica e lunedì le autorità israeliane hanno espulso circa 120 migranti provenienti dal Sud Sudan, tra i quali 43 bambini. Ufficialmente hanno lasciato «volontariamente» il paese per tornare nella loro terra d’origine. A ogni immigrato è stato garantito un contributo di 1300 dollari (500 per i bambini) con la promessa di non fare più ritorno nello stato ebraico. «Alle persone fermate per strada è stato detto che se non firmano il documento (di rimpatrio volontario, ndr), non saranno autorizzati a raccogliere i propri beni e rimarranno in custodia (fino all’espulsione, ndr) – ha dichiarato l’attivista per i diritti dei migranti Rami Gudovitch al quotidiano israeliano Haaretz – Quindi ho i miei dubbi su quanti stanno lasciando il paese di spontanea volontà ». Il via libera all’operazione di rimpatrio è stato dato dopo una sentenza della Corte israeliana che, una settimana fa, ha reputato legittima l’espulsione dei cittadini provenienti dal Sud Sudan. Da quel momento ha preso il via l’operazione «Going Home», controlli a tappeto di squadre speciali alla ricerca degli «infiltrati» – così vengono definiti i migranti – che hanno portato all’arresto di oltre 200 rifugiati. L’effetto di questa caccia alle streghe è stato immediato. L’intensificarsi dei controlli ha causato anche la perdita di quei piccoli lavori che garantivano ai rifugiati i soldi necessari per la sopravvivenza.
Ufficialmente, per la legge israeliana, ai rifugiati e ai richiedenti asilo non è permesso lavorare, ma fin dalle prime luci dell’alba i migranti si riunivano nelle aree periferiche in attesa del caporale di turno che gli offrisse un lavoro. Molti sono laureati, ma la loro qualifica qui non mai avuto alcun valore. Si sono sempre dovuti accontentare di impieghi di poche ore, quelli che tra loro chiamano «lavori tchik tchak» (carico scarico merci, pulizia di negozi, lavapiatti nelle ore di punta, i più fortunati nell’edilizia).
La maggior parte dei datori di lavoro ha però deciso di licenziare o non assumere più i rifugiati a causa dell’applicazione della nuova «legge d’ingresso», secondo la quale se un cittadino israeliano viene scoperto ad aiutare o a dare lavoro a un rifugiato può andare incontro ad una pena fino a 5 anni di carcere e una multa fino ad un milione di dollari.
Il clima di tensione costringe molti immigrati a restare chiusi nelle proprie case, per paura di essere arrestati o per timore delle violenze dei gruppi israeliani più radicali, che nell’ultimo mese si sono moltiplicati notevolmente. «Stupratori, assassini, ladri, ubriaconi, scassinatori. La sera abbiamo paura di uscire da casa – afferma Carmela una abitante del quartiere di HaTivka (Tel Aviv) – noi siamo diventati una minoranza nel quartiere. Ho scritto una lettera alla Knesset, ma nessuno ci risponde. L’unico modo per svegliare le autorità è che i cittadini del sud di Tel Aviv colpiscano gli stranieri fisicamente. Non voglio che questo accada, ma non c’è scelta».
Ad esasperare gli animi si aggiungono le dichiarazioni di importanti leader di partito e di governo, per decenni indifferenti alle condizioni di vita dei quartieri poveri dove gli immigrati solitamente si concentrano, ma che adesso sembrano utilizzare la rabbia verso i migranti per accrescere il loro consenso politico, senza curarsi delle conseguenze delle loro affermazioni.
Nell’ultimo mese diverse manifestazioni sono state organizzate contro i migranti, molto spesso promosse da gruppi di coloni radicali provenienti dalle colonie della West Bank e da alcuni gruppi ultras, con la partecipazione di diversi membri della Knesset. Gli slogan più ricorrenti sono «sudanesi in Sudan», «Ricordati cosa ti ha fatto il sudanese», «Gli israeliani vogliono vedere i sudanesi cremati» (usando il verbo con cui in ebraico si fa riferimento ai forni crematori utilizzati dai nazisti durante l’Olocausto). Durante la manifestazione del 23 maggio alcuni immigrati hanno rischiato il linciaggio e 2 negozi gestiti da immigrati sono stati distrutti e saccheggiati. Per questo motivo, molte organizzazioni umanitarie, in previsione delle successive manifestazioni, hanno fatto circolare volantini in cui chiedevano agli immigrati di restare in casa e di non far uscire i bambini. Qualche giorno fa si sono registrati atti di violenza anche a Gerusalemme, dove è stato dato fuoco ad un appartamento abitato da migranti di origine eritrea. I responsabili di questo gesto prima di andar via hanno lasciato un messaggio all’ingresso: «andate via dal quartiere», mentre a Tel Aviv un ristorante eritreo è stato preso di mira da gruppi ultra-ortodossi che hanno distrutto parte dell’attività ferendo anche un cliente.
I manifestanti non attaccano solo gli immigrati, ma anche gli attivisti di sinistra con slogan come «la sinistra è un cancro» «attivista vattene in Sudan». «Purtroppo anche le organizzazioni per i diritti umani sono diventate un obiettivo da colpire – afferma Shahar Shoham, direttrice del Dipartimento Migranti di Physicians for Human Rights-Israel – Ci attaccano perché forniamo ai rifugiati cibo, vestiti e cure mediche».
L’aumento degli episodi di violenza, insieme alle continue dichiarazioni razziste dei ministri e dei deputati della Knesset – solo pochi giorni fa il ministro degli interni dichiarava che «Israele appartiene all’uomo bianco», dimenticando, tra l’altro, le sue origini tunisine – stanno preoccupando il ministro degli esteri israeliano. Le affermazioni di Eli Yishai, Danon, Regev stanno infatti arrecando «danni irreparabili» all’immagine pubblica di Israele all’estero, soprattutto negli Stati uniti. Per la prima volta, i media americani hanno usato il termine «disordini razziali» per descrivere ciò che è accaduto nel sud di Tel Aviv, causando un duro colpo all’immagine di Israele specialmente tra la comunità nera e tra i liberali americani.
Se per il ministro degli esteri il problema di queste dichiarazioni è nella forma più che nella sostanza per altri il problema deve essere affrontato alla radice.
Alcuni vedono in ciò che sta avvenendo l’ennesima dimostrazione dell’impossibilità di stabilire uno stato che sia allo stesso tempo ebraico e democratico. «I nipoti delle vittime della Germania nazista … dovrebbero sapere come identificare i tratti caratteristici del fascismo – afferma lo storico Michael Warschawski – I nipoti e i bisnipoti di quei rifugiati e di quei sopravvissuti dovrebbero provare empatia per i profughi… Ma lo “stato d’asilo” è diventato uno stato fascista nel quale le necessità del potere hanno completamente rimpiazzato quelle dei diritti e l’empatia ha lasciato il posto all’odio verso lo straniero. Siamo un’altra prova che l’esperienza della persecuzione non conduce necessariamente all’empatia verso i perseguitati. La tradizione ebraica è piena di comandamenti d’amore verso lo straniero. Non si tratta semplicemente di trattare qualcuno con dignità , ma di vero amore».
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