PICCOLE ISTRUZIONI PER LA FINE DEL MONDO

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L’Apocalisse è prevista fra un millennio, o ci colpirà  già  stasera? Se lo chiede questo libro di Roberto Alajmo,
Arriva la fine del mondo (e ancora non sai cosa mettere), appena edito da Laterza (pagg. 220, euro 14). Il titolo non deve ingannare: non si tratta di un testo “scacciapensieri”: tutt’altro. Il fatto che gli umori (o i malumori) dell’autore di rado coincidano con le previsioni della ricerca scientifica, o addirittura le contestino, influenza la trama del racconto.
Alajmo, saggista e collaboratore della Repubblica, ci offre, tanto per cominciare, un sommario dei “precedenti” che, nel corso della storia, hanno fatto temere che l’epilogo globale fosse vicino. Si va dallo sterminio delle foreste che ci fu tanti anni fa nell’isola di Pasqua a quella crisi dei missili di Cuba, che nel 1962 prospettò una gara nucleare fra le Superpotenze; dal disastro della piattaforma petrolifera della BP nel golfo del Messico al terremoto di Haiti. Fino alla recente eruzione di quel vulcano islandese dal nome già  di per sé terroristico: Eyjafjallajà¶kull (2010).
Segue un elenco di nozioni, concetti e parole, che ci aiuterà  a battezzare le nostre angosce: spostamento dell’asse planetario, tempeste solari, radiazioni cosmiche, collisione fra pianeti. O, più terra terra, roghi di boschi, pogrom, aumento incontrollato delle immigrazioni, repentini mutamenti di clima. A proposito dei quali, l’autore non si esime dal denunciare i demeriti dell’informazione, indotta a un periodico allarmismo stagionale. L’universo
si darà  pure da fare per scaldarsi sempre più, ma la pubblica offerta del panico termico genera assuefazione. Il risultato – così viene riassunto – può essere una scena domestica con relativo consiglio coniugale: «Anche quest’anno è l’agosto più caldo di tutti i tempi. Fatti una doccia e tira avanti».
Ma anche quando, in presenza di un calo di Apocalissi annunziabili, l’informazione è a corto di argomenti, i titoli si concedono almeno un poco dell’idolatrata drammaticità . Mimando una possibile vignetta di Altan, il saggista immagina che un redattore piombi nella stanza del direttore gridando: «Non è successo niente!». E quello: «Mandiamo tre inviati e titoliamo così: “Tragico Vuoto”».
L’apice di questa coesistenza, in fondo quasi pacifica, con le catastrofi si registra, a suo dire, in Italia. Si tratterebbe di un’istintiva «vocazione al disastro», di quell’idolatria del peggio che è tipica di chi non crede più in se stesso. Dato per acquisito «il tramonto dello stellone italico», tanto vale tentare, di fronte ai drammi, di farla franca a titolo personale. Ecco infatti la domanda che di solito accompagna le notizie più tetre: «Ma fra le vittime c’erano italiani?». E quando la Farnesina ti rassicura, «sei autorizzato a tirare un sospiro di sollievo». Tempo fa, data la frequenza di sciagure in atto in Estremo Oriente, quel balsamo autorizzava a un codicillo: noi siamo ancora vivi, «peggio per quelli che hanno voluto essere giapponesi a loro rischio e pericolo». La scarsa stima che
Alajmo nutre per la sua e nostra patria esplode in un’altra considerazione: vengono colpite (l’allusione è sempre agli abitanti del territorio nipponico) persone che «si somigliano talmente tanto che dire “un giapponese”, “cento giapponesi” o “ventimila giapponesi” sembra sempre un po’ lo stesso». Ne consegue la norma in base alla quale «i morti sono meno gravemente morti, se si somigliano fra loro». Un abisso di cinismo firmato Italia? Siamo davvero così? Vorremmo essere un po’ rassicurati. Ma neppure una goccia di “politically correct” annacqua la surreale filippica in cui consiste il libro. L’autore ha scelto il sarcasmo come un recipiente nel quale versare la propria indignazione, che è difficile non condividere.
In un ipotetico calendario delle catastrofi, il 2012 figura con tutti gli onori. Probabilmente il saggio è stato scritto prima dei terremoti che hanno colpito il centro dell’Italia. Se l’autore avesse fatto in tempo a registrarli, non dubito che la sua invettiva sarebbe stata meno acre, lasciando spazio al rammarico e alla pietà .
Nelle ultime pagine s’insiste su un tono leggero, nella convinzione che ogni allarmismo sia fuori posto in un mondo che alle catastrofi non ama pensare. Ciascuno rifletta, piuttosto, su che faccia assumere di fronte all’Apocalisse, «che contegno tenere, cosa indossare». La consegna è: «Scegliere la tenuta più adatta».
Perché almeno, come fine del mondo, sembri un po’ elegante.


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