L’Arte delle Armi Guerre,duelli e amor cortese

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La guerra è arte o scienza? Non è chiaro da quando sia entrata in uso l’espressione “arte della guerra”. Ma vale la pena di ricordare in quale accezione la facesse sua Niccolò Machiavelli. Per lui il mestiere delle armi faceva parte essenziale del sistema delle “arti”, cioè dei mestieri necessari per la vita di una società : e questo perchè senza di lei tutte le altre “arti” sarebbero rimaste indifese, come arredi di un grande e magnifico palazzo privo del tetto. Contro il ricorso a corpi di soldati di mestiere, Machiavelli concepiva la guerra come arte della difesa, impegno temporaneo del cittadino per la sicurezza della patria. La realtà  non solo italiana del tempo andava in altra direzione: e anche ai nostri tempi, dopo la parentesi degli eserciti nazionali di “figli della patria”, ritorna in voga il mestiere della guerra come professione.
Ma una mostra di armi antiche come quella che è in preparazione a Trento si pone certamente sotto il segno dell’arte. La ricchissima raccolta dell’arsenale o Landeszeughaus di Graz è celebre nel mondo per aver gelosamente conservato l’arsenale che vi fu concentrato alla metà  del ‘600 per fronteggiare l’avanzata ottomana. Vi si ammirano i prodotti di un raffinatissimo artigianato: i luccicanti coleotteri delle armature di uomini e di cavalli, la selva di corazze e schinieri compongono una sfilata di splendide forme umane e animali di metallo, modellate sui corpi fino a diventare essi stessi dei corpi senza volto: al confronto, gli eserciti cinesi sepolti per far compagnia all’imperatore appaiono grigi e terragni. Qui c’è un trionfo di forma e di eleganza e purezza di linee. È come se il cavaliere inesistente di Calvino si fosse riprodotto proliferando per partenogenesi, libero del tutto dall’ingombrante corporalità  dello scudiero Gurdulù. Si pensa al lavoro delle botteghe artigiane – corazzai, scudai, spadai, cuoiai che vi ha lasciato spesso la traccia di una firma, residuo segno di una accanita concorrenza per catturare una clientela ricca ed esigente. Era lì che si lavoravano le armature di piastra e di maglia e si preparavano le lance in grado di resistere all’impatto delle pesanti cavalcature lanciate al galoppo. Si stava attenti alla moda, per esempio passando dall’acciaio piano alla decorazione a racemi, dalla visiera alla francese a quella all’italiana. Nel mondo delle armi antiche la produzione era dominata dall’evoluzione della moda, non meno di quanto lo sia oggi quella dei grandi sarti. Ma il gusto nel modificarsi restava fedele al canone della memoria dell’antico, tipica di un’idea di nobiltà  come permanenza ereditaria di titoli di dominio sacralizzati dal tempo.
Nei delicati disegni coi quali anche tra’500 e ‘700 si continuò a decorare corazze, spade, imp ugnature di armi da fuoco, ritornano moduli di una produzione elaborata per secoli, col contributo speciale degli italiani. Ma al di là  dei singoli pezzi, questo esercito inanimato reca l’impronta delle guerre del passato e delle società  che vi investivano le loro risorse e vi rispecchiavano le loro gerarchie. C’è la storia dell’organizzazione del lavoro e quella dell’assetto del potere: dietro l’opera delle botteghe si profila la fatica dei minatori e delle fonderie, l’organizzazione dei magazzini e delle reti commerciali per i pezzi di ricambio. Invece gli eleganti cavalieri con le loro spade biancheggianti a cavallo di destrieri corazzati ricordano l’antico regime di un potere feudale legato all’Imperatore e alla Chiesa.
Come dietro la battaglia di Bouvines lo storico Georges Duby ha potuto ricostruire lo spaccato della società  medievale, rivelarne i riti e i valori, così dietro queste armature si intravede un sistema di potere ma anche una cultura: fu la rinascita dell’antico che ripropose miti ed eroi dell’epica classica e immagini della statuaria romana, mentre i romanzi cavallereschi diventavano la lettura prediletta delle corti. I nuovi ricchi si nobilitarono così: nell’inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico si legge di “corazze a l’antica, coperte di velluto pagonazzo” . L’erede di mercanti e banchieri non le aveva indossate per far guerra ma per pavoneggiarsi nei tornei. Tutto quel mondo sembrò cancellato dall’invenzione delle armi da fuoco: e non fu così. Ne rimase un ricordo
durevole, un rimpianto che si rispecchiò nella fortuna dei poemi cavallereschi, specialmente di quello dell’Ariosto, il poeta che voleva far sprofondare negli abissi l’”abominoso ordegno” dell’archibugio. Ma, mentre avanzava un nuovo tipo di guerra, dove si ammazzava da lontano e si mirava alla strage, c’erano ancora codici cavallereschi nella testa di uomini come Carlo V, l’imperatore che, allevato fra i tornei della corte fiamminga, voleva imitare l’eroe del suo romanzo prediletto sfidando a duello Francesco I. Ma fu il duro mestiere della guerra a occupare tutta la sua vita obbligandolo a cavalcare in armi per tutta Europa fino ad averne il corpo
precocemente fiaccato. Il duello dei cavalieri medievali era stato una procedura di pace, il contrario della guerra. E ancora a lungo per chi vestiva armature come queste la guerra continuò a essere “la vita medesima, la missione fondamentale, il più ardente fra tutti i piaceri e la principale occasione di guadagnare denaro”(G.Duby). Da qui la cura nel proteggersi più che nell’ offendere. E il difensore difendeva in primo luogo se stesso coprendo il suo corpo di fragile carne con un vestito d’acciaio. Anche per questo le sfilate in costume dei palii cittadini suscitano ammirazione e nostalgia. Almeno finchè non si sfocia nel ‘medioevo militante’ della politica, dove, come ha scritto Tommaso Di Carpegna Falconieri, la reinvenzione dei miti identitari del sangue e del suolo ha da tempo abbandonato il terreno delle metafore.


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