Trionfo europeo per la Lady
Da ieri, 13 giugno, Aung San Suu Kyi visita l’Europa. E’ solo la seconda volta dal 1989 che la Lady uscirà dal Myanmar (la Birmania), dopo la recente visita a Bangkok. Il lungo viaggio, che durerà ben due settimane, toccherà Svizzera, Norvegia, Gran Bretagna, Irlanda e Francia. Tra i numerosi appuntamenti ufficiali, Aung San Suu Kyi sarà ospite di istituti internazionali, tra cui l’Ilo e la sala del comune di Oslo, dove le leader birmana riceverà il premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991 e che non ha mai potuto ritirare per il divieto imposto dai militari di rientrare in Myanmar nel caso ne fosse uscita.
Da allora il paese asiatico ha subito radicali cambiamenti passando dagli anni della speranza di un’apertura al dialogo durante il governo del moderato Khin Nyunt, al periodo più buio e drammatico dello xenofobo Than Shwe, grazie al quale ogni tipo di opposizione venne vietata, i prigionieri politici si moltiplicarono, la popolazione si impoverì e nel 2007 le manifestazioni indette dai monaci furono represse dall’esercito. E’ stato il ritiro a vita privata di Than Shwe e del suo vice Maung Aye a ridare slancio alla democratizzazione del paese. Ad appena una settimana dalle elezioni generali del 7 novembre 2010, il regime mantenne la promessa di liberare Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari che si protraevano, a fasi alterne, dal 1989. E il Myanmar che si affaccia oggi sulla scena internazionale, di cui la Lady è rappresentante parlamentare, sta convincendo sempre più i governi occidentali delle positive intenzioni del gabinetto Thein Sein. Particolarmente ottimisti sono gli Stati Uniti, che in un recentissimo rapporto del Dipartimento di Stato sulla situazione dei diritti umani, hanno trovato parole di elogio per il Myanmar a causa dei miglioramenti sociali attuati.
In effetti la lista dei prigionieri politici birmani stilata periodicamente dall’Aappb (Assistance Association for Political Prisoners in Burma), ha visto diminuire drasticamente il numero di detenuti: da 2.000 che erano nel 2010, sono oggi 471. Ancora tanti, sicuramente, ma non c’è nessuna nazione al mondo che, nel contempo, ha liberato così tanti oppositori. Tra questi, oltre naturalmente ad Aung San Suu Kyi troviamo nomi noti come il comico Zarganar e il monaco buddista U Gambira, organizzatore delle proteste del 2007.
Anche in campo sindacale i lavoratori cominciano a godere di alcuni diritti. Le organizzazioni di rappresentanza sono ora riconosciute, così come il diritto di sciopero anche se, dopo 50 anni di proibizioni, la titubanza e la paura, assieme alla repressione ancora in atto, frenano la partecipazione attiva dei lavoratori. Per rilanciare economicamente e socialmente la nazione, Thein Sein ha chiesto ai dissidenti birmani all’estero di rientrare in patria, offrendo loro l’amnistia.
Nel suo ultimo viaggio in Thailandia, la stessa Aung San Suu Kyi ha promesso ai rifugiati birmani (circa 155.000) di riportarli nelle loro case. Bisognerà , però, vedere se questi profughi, la maggioranza dei quali è nata e vissuta in Thailandia, accetterà di varcare il confine. Molti di loro preferirebbero continuare a vivere oltrefrontiera piuttosto che rifarsi una vita in una nazione ancora instabile e dove ogni forma di governo, sia locale che centrale, è dominata dall’etnia bamar, a cui la stessa Aung San Suuy Kyi appartiene.
Fino ad ora, infatti, la carta democratica si è giocata principalmente nella regione centrale della nazione asiatica, quella che gli inglesi, al tempo del colonialismo, chiamavano Birmania. E’ in quest’area, che si estende lungo il bacino dell’Ayeyarwaddy fino a Mytkyina, che si è sempre decisa la politica dell’intero Myanmar. E sono sempre stati politici di etnia bamar, o birmana, a dettare le sorti di una nazione formata da 135 entità etniche differenti. I bamar, che rappresentano il 68% della popolazione del Myanmar, hanno sempre negato una rappresentanza significativa alle minoranze culturali e linguistiche. Neppure Aung San, eroe nazionale e padre della stessa Suu Kyi, si è mai mostrato accondiscendente con la periferia della nazione, trattando i gruppi etnici con il pugno di ferro e negando loro ogni autonomia.
La fase di apertura democratica avvenuta nel paese, è stata quella più semplice, perché interessava un solo gruppo etnico. Ora occorre estendere il pluralismo all’esterno della regione birmana. Ed è qui il passo più difficile che dovrà compiere Thein Sein. L’influenza di Aung San Suu Kyi potrà facilitare solo in parte il compito del gabinetto di Nay Pyi Taw. La Lady, infatti, nelle zone periferiche del Myanmar non è popolare come lo è nella regione etnica a cui appartiene. Shan, Chin, Kin, Wa, Rakhine, Mon, gelosi della propria autonomia, continuano a mantenere propri eserciti e diffidano anche della bamar Suu Kyi.
Lo dimostrano gli scontri che qualche settimana sono scoppiati proprio nel Rakhine, la zona a maggioranza musulmana al confine con il Bangladesh dove, dal 10 giugno, è stata dichiarato lo stato di emergenza. L’indebolimento del potere centrale e l’allentamento della morsa dei militari, ha indotto la comunità musulmana a ribellarsi contro quella buddhista sostenuta dai generali birmani. Come molti altri gruppi etnici del Myanmar, ai Rakhine è negata la cittadinanza birmana e, spesso, anche la possibilità di pregare nelle moschee.
La posizione di Thein Sein si fa sempre più delicata perché accontentare le istanze di questi popoli significherebbe, coinvolgere anche la politica etnica dei paesi limitrofi come Cina, Thailandia, Laos, India e, in esteso, anche Vietnam. Tutte nazioni, queste, che hanno enormi problemi di convivenza e di diritti umani con le popolazioni montane. Ecco perché ora, dopo tanti slogans e promesse, anche la Lega Nazionale per la Democrazia si troverà costretta a ritirare certe prese di posizione «liberali» assunte nel passato.
Spiace dirlo, ma l’unica organizzazione transnazionale capace di avere una rappresentanza su tutto il territorio è il Tatmadaw, l’esercito. Anche Aung San Suu Kyi sa che senza il Tatmadaw non può esistere il Myanmar, ed è per questo che, specialmente negli ultimi mesi, ha smorzato i toni contro i militari e la stessa Cina, accettando di entrare a far parte di un parlamento retto da una costituzione da lei stessa criticata perché garantisce che il 25% dei seggi venga assegnato ai militari.
La strada verso la democrazia in Myanmar è sicuramente a buon punto, ma è giunta a una svolta. Perché possa procedere, ora occorre inoltrarsi oltre i confini etnici. Ed è qui che il gioco si farà duro. Anche per Aung San Suu Kyi.
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