Dentro le case dei rom, ribaltando gli stereotipi

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«Siamo venuti a Shutka perché avevamo bisogno di parole, non ci bastavano le nostre, ma non siamo soddisfatti. Sentiamo di dover andare più a fondo. Che senso ha per noi essere venuti fin qui? Che cosa stiamo cercando?». Chi si pone queste domande è il non-protagonista di un viaggio davvero straordinario «ai margini d’Europa» (Andrea Mochi Sismondi, Confini diamanti. Viaggio ai margini d’Europa, ospiti dei rom, ombre corte 2012, pp. 253, euro 20). Perché straordinario? Per due buone ragioni. Perché coloro che di norma e da secoli viaggiano in terre «altrui» – ospiti ingrati – sono questa volta i padroni di casa; e perché Shutka (al secolo Shuto Orizari, quartiere alla periferia di Skopje, Macedonia) è l’unica municipalità  al mondo in cui i rom siano maggioranza e si autogovernino. 
Andrea, Fiorenza (entrambi attori teatrali) e il figlio Marco, di pochi mesi, cà pitano a Shutka quasi per caso, nel corso di un soggiorno a Skopje dove Fiorenza è impegnata in uno spettacolo con la compagnia ravennate «Fanny & Alexander». La prima visita al quartiere rom è un colpo di fulmine. Piccole case dalle forme inusuali, persone ospitali e diffidenti, odori invitanti, musica, luci e sguardi misteriosi. I tre hanno varcato un confine invisibile e si trovano in un altro mondo, enigmatico e intrigante. L’impressione prevalente è paradossale. «Ci sentivamo come dei corpi estranei prossimi all’espulsione». Per la prima volta sono gli «occidentali» ad avvertire il rischio di essere espulsi al cospetto del popolo marginale per antonomasia. 
Quel luogo ha una potenza attrattiva di cui non ci si capacita, e costringe Andrea e Fiorenza a tornare qualche mese dopo per un più lungo soggiorno. Ne sortisce un prezioso diario di viaggio, che tutto è meno che un reportage turistico. Il narratore, senza volerlo, scompare. Pur indugiando sui dettagli della propria esperienza e sui propri pensieri, esce di scena, riuscendo a restituire senza mediazioni l’immagine di una comunità  sorpresa in una quotidianità  ordinaria e senza storia. 
Leggere è come penetrare, non visti, nell’intimo di vite la cui eccezionalità  consiste nel sovvertire ogni aspettativa fondata sullo stereotipo. Gli «zingari» a casa loro: normali; nelle case; alle prese con i problemi ordinari del governo e della politica, del potere e della corruzione, della ricchezza e della disoccupazione. Sembra un mondo rovesciato, e in effetti lo è (viene in mente il paese delle meraviglie di Alice). Quando la lettura finisce, una sensazione di straniamento – «spaesamento», scrive Adriano Zamperini nella prefazione – lascia un retrogusto dolceamaro. 
Non è un racconto, piuttosto un’affollata galleria di episodi e figure; una trama senza storia, nella quale sono incastonate tante storie, come nelle Mille e una notte. Del resto c’è molto del nostro «oriente» tra i vicoli dissestati di Shutka e nel profumo delle ciambelle fritte in strada. Gli stereotipi non si dissolvono immediatamente. Gli ingredienti del quadro sono proprio quelli attesi: feste e balli, risse e automobili, bazar e avventure, amori impossibili, matrimoni, funerali. E soprattutto viaggi, peregrinazioni, l’ossessione per i visti verso l’Europa e – anche qui – la presenza minacciosa dell’altro: gli albanesi, spesso violenti e aggressivi; e la polizia macedone, ostile, violenta anch’essa. 
Ma quel che accade, man mano che il diario si svolge, è il colorarsi, il prendere vita e verità , di quei tratti da cartolina, in apparenza ovvi e scontati. E così lo stereotipo diventa di per sé un tema, l’oggetto di una ricorrente discussione a più voci. 
I rom ne conoscono la potenza, che da secoli li relega ai margini e nel sottosuolo delle città , nel fango dei campi, nel purgatorio delle periferie, nell’inferno delle persecuzioni (riaffiora qua e là , bruciante, il ricordo del «Porrajmos», il grande divoramento, come i rom chiamano il loro sterminio nei Lager nazisti). Non rimuovono affatto il problema. Anzi, con un misto di malinconia e sorprendente, ironica dolcezza, ne discutono, rivelandosi maestri nel gioco degli sguardi. 
«Noi siamo rom, ma agli occhi degli altri appariamo come zingari: esseri sottovalutati che vivono ai margini delle città  nella sporcizia e nella delinquenza». E se oggi non si affiggono più cartelli col divieto d’accesso «ai cani e agli zingari», come si usava in passato fuori dai caffè francesi, la discriminazione rimane, figlia di pregiudizi tenaci. «Ma come? Siete rom e avete una tradizione teatrale? Siete istruiti? Leggete? Ma non siete nomadi?». E allora, con un gioco di prestigio, il discorso si ribalta: «Smettetela di chiamarci rom, parola ipocrita. La gente ci chiama rom quando vuole fare affari, ma lo sappiamo che dietro continuate a chiamarci zingheri. Allora è meglio e più onesto che ci chiamiate direttamente zingheri». Per come ci vedete dovete chiamarci, in modo che le parole dichiarino i vostri pregiudizi. Non siamo noi a nasconderci, ma voi, dietro rassicuranti finzioni: abbiate finalmente il coraggio di fare i conti con i vostri fantasmi e le vostre proiezioni. Questo ribaltamento del discorso, del tutto inaspettato, schiude nuove prospettive. Talvolta esilaranti, come il divertissement su Napoli («Ué, ué, cumpa’, tutt’appuost?», chiede il rom «dai trascorsi italiani» a un suo operaio, che sorride inebetito); più spesso serie e ricche di insegnamenti. 
Un tema sopra tutti attrae l’attenzione dei rom più pensosi e più consapevoli della propria condizione. Questa renitenza loro a muovere guerra e persino a difendersi se attaccati, e questa opzione sistematica per la fuga (riecheggia insistente l’antitesi originaria tra Caino e Abele, tra il violento radicato sulla terra e il mite nomade, disinteressato al possesso), da che cosa discendono e come giudicarle? Una riflessione plurale si dipana al riguardo, quasi un filo rosso in questo dramma leggero. Paura? Rassegnazione? Debolezza? «Voi ne parlate come di una bella qualità », dice uno, «ma se adesso con questa storia della Grande Albania la guerra arrivasse a Shutka, probabilmente il mio popolo scapperebbe in massa verso una nuova terra straniera, dopo avere abbandonato il Kosovo. Il vero problema è la rassegnazione: noi non sappiamo combattere per i nostri diritti né come si organizzino le lotte». «Questa non attitudine alla lotta è uno dei motivi che ci ha spinto a venire qui», gli fa eco un altro; e un terzo, che racconta di continue aggressioni da parte degli albanesi, domanda: «Cosa dobbiamo fare, dobbiamo diventare anche noi dei violenti per difenderci?».
È un’interrogazione aspra, che preclude risposte rassicuranti. Questo è difatti il sapore di fondo di un libro vero, scarno e pulito. Nessuna ricetta, nessun conforto, soltanto il documento autentico di un’esperienza non prevista. E quando Fiorenza cerca di sottrarsi al contro-stereotipo che per forza di cose la imprigiona («Non abbiamo intenzione di rappresentare i rom, ciò che vogliamo creare è un’occasione di pensiero sulla realtà  che ci accomuna»), la replica è inevitabilmente secca: «certo, ma se mi taglio un dito, magari voi potrete essermi vicini e descrivere il colore del sangue. Resta il fatto che solo io conoscerò il dolore».


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