Cittadini ieri e oggi, il discrimine del censo

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Tra quello che si intendeva nel medioevo con la parola cittadino e quello che oggi si intende con la stessa parola c’è in apparenza una grandissima differenza. Il civis medievale esisteva in assenza di un concetto generale e astratto di cittadinanza, mentre l’odierno cittadino della città  europea o nordamericana concretizza con la sua stessa presenza una nozione immateriale di cittadinanza che, a sua volta, si suppone connessa ad un sistema di diritti civili. Mentre la cittadinanza medievale non esiste come realtà  sovraindividuale, la cittadinanza rimodellata dall’epoca della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale all’epoca del trionfo delle democrazie parlamentari nell’ambito degli stati nazionali rinvia a un sistema di diritti di cui il cittadino gode in quanto soggetto in possesso di una cittadinanza. 
La Carta dei Diritti Fondamentali prodotta nel 2000 dall’Unione europea può quindi dichiarare già  nel preambolo che: «Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità  umana, di libertà , di uguaglianza e di solidarietà ; l’Unione si basa sui principi di democrazia e dello stato di diritto. Essa pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà , sicurezza e giustizia». Il 10 dicembre 1948, del resto, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva stabilito con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani un nesso forte fra il diritto di cittadinanza e i diritti fondamentali delle persone, quelli cioè che tutelano, al di là  di ogni discriminazione, l’uguaglianza davanti alla legge, l’integrità  fisica e morale di ciascuno e la «libertà  di pensiero, di coscienza e di religione». 
È tuttavia perfettamente evidente che, se il medioevo giuridico dei secoli XIV e XV poteva dichiarare tranquillamente che era cittadino di una città  soltanto chi la città  riconosceva come tale a partire da un insieme di caratteristiche tutto sommato piuttosto variabili, e il cui significato dipendeva comunque non tanto dal luogo di nascita, ma piuttosto dalla collocazione socio-familiare dell’individuo nella città , l’attuale stato di diritto afferma sulla carta una logica paritaria della cittadinanza fondata sull’appartenenza oggettiva a un territorio nazionale, che tuttavia di giorno in giorno viene messa in discussione e cioè contraddetta e svuotata, dalle differenze sociali, culturali ed economiche esistenti fra coloro che nonostante tutto continuano ad avere il nome di cittadini. Così come la ripetuta enunciazione dell’inviolabilità  dei diritti umani avvenuta in sedi diverse dopo il 1945 è normalmente neutralizzata dalla realtà  di forti e sistematiche violazioni dei diritti fondamentali delle persone, a cominciare da quello alla vita, l’affermazione parallela dei diritti di cittadinanza è costantemente inficiata, in Italia e nel mondo, da forme di discriminazione economica e sociale palesi e notissime. Per ragioni analoghe, riconducibili, in breve, al prevalere di un diritto del più forte che poche leggi riescono a mitigare, è dunque da un lato possibile, oggi, che i detentori di una cittadinanza, acquisita talvolta in seguito al regolarizzarsi di una immigrazione, muoiano di fame, non abbiano una casa o siano ridotti in schiavitù. 
In questo clima quasi non fa notizia e quasi non stupisce più che la maggior parte delle vittime di un recentissimo terremoto siano lavoratori a cui sono state negate le forme più elementari di sicurezza ovvero a cui sono stati negati i diritti più elementari del cittadino. L’ovvia possibilità  dei più ricchi di scampare, in Italia forse più che altrove, alla pubblica giustizia grazie alla loro solvibilità , nega ogni giorno il significato stesso di una cittadinanza che si vorrebbe fondata su principi di giustizia ed equità  ma che, invece, fa ogni giorno dei cittadini più poveri altrettante vittime potenziali, e cioè altrettanti semi-cittadini sostanzialmente inermi.
Di fatto, come di recente è stato ricapitolato e chiarito da Julius Kirshner, la cittadinanza medievale e della prima età  moderna, almeno quella codificata e commentata dai giuristi, ma anche quella messa in pratica dalle legislazioni locali, fu un mosaico alquanto precario di condizioni di appartenenza. La ricchezza, il rilievo sociale della famiglia, la religione della quale si faceva parte, la pubblica reputazione erano alcuni fra gli elementi che componevano l’identità  civica, ed era molto difficile rientrare nel gruppo dei veri cittadini senza che tutti questi requisiti fossero riconoscibili e cioè visibili in una persona e nei suoi comportamenti. Bartolo da Sassoferrato poteva dichiarare pertanto, nella prima metà  del Trecento, che il cittadino è identificato e riconosciuto come tale dalla città , ossia dal governo cittadino: e che, di conseguenza, la nascita in un territorio fa di un uomo o di una donna l’abitatore o l’abitatrice di un luogo inteso come situazione politica, ma non ne fa automaticamente il cittadino o la cittadina, e cioè altrettanti partecipanti a pieno titolo e a buon diritto alla sfera politica e governativa. Come già  Pietro Costa aveva efficacemente notato, la cittadinanza medievale e rinascimentale, ma anche quella moderna, sono fondamentalmente esclusive; Tommaso d’Aquino, con parole che sarebbero state ricordate a lungo dai produttori del pensiero politico ed economico europeo, aveva duramente attualizzato la riflessione aristotelica sull’appartenenza civica e sull’esclusione dal rango dei veri cittadini dei lavoratori manuali (i banausi, gli artifices o i mercenarii), stabilendo che cittadinanza piena significa diritto di partecipazione al governo politico della città  e dello Stato, e che, di conseguenza, da questo tipo di partecipazione completa erano e dovevano essere esclusi quanti si dedicavano ad attività  lavorative il cui obiettivo era un salario o un guadagno mirato alla sopravvivenza fisica. Il principio di questa esclusione, spiegava Tommaso d’Aquino, riprendendo alcuni temi di diritto romano riletti alla luce del diritto canonico a lui più vicino, dipendeva dalla natura servile di quelle occupazioni, ossia dalla subordinazione economica che esse concretizzavano e che doveva essere rispecchiata da una subordinazione sociale e politica. Fra i cittadini e gli abitatori di una città  o di uno Stato la differenza era e doveva essere grande: questa differenza era segnata e incisa sul corpo di ciascuno dall’occupazione economica che determinava i guadagni e la ricchezza o la povertà  di ciascuno, e che stava in effetti all’origine della diversità  politica visibile e riconoscibile ovvero pubblicamente nota. 
Il ruolo economico, la professione o il mestiere, in altri termini, rimandavano, secondo Tommaso, ma anche secondo molte legislazioni statutarie italiane del Due, del Tre e del Quattrocento, come poi nella trattatistica politico-economica sei e settecentesca, alla condizione sociale e politica dei soggetti che abitavano la città  e lo Stato: alla loro identità  servile o padronale, subalterna o dominante. (…)
Questa ambiguità  della connessione tradizionalmente esistente, nei lessici europei del potere e dell’amministrazione, fra estraneità  civica e subordinazione economica, avrebbe consegnato al futuro mondo dei «diritti dell’uomo», un’eredità  molto difficile da gestire. E in effetti: quanto ha a che fare l’antica, tradizionale e profonda gerarchizzazione dei ruoli civici su base economica, esplicita o implicita che essa sia, con i percorsi storici della violenza istituzionale, o istituzionalizzabile, nei confronti dei più deboli, degli stranieri, dei minori, di quelli che non sono dei «nostri»? Sino a che punto questa dinamica economica e dominativa ha potuto determinare quella «fragilità  dell’empatia» che, stando a un bel libro di Carolyn Dean (The Fragility of Empathy after the Holocaust, Cornell University Press 2004) fa tutt’uno con la storia del Occidente fra Otto e Novecento?


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