Nel cibo la sapienza della memoria
È come una lunga preghiera questo romanzo-non romanzo di Marosia Castaldi, con la sua scrittura fiume, costante e continua, come un respiro protratto: La fame delle donne, uscito per Manni (pp. 185, euro 17), offre un’esperienza di lettura «resistente», cioè la musicalità della narrazione è a tratti facile, veloce, e a tratti scontrosa, ruvida. Ci si deve abbandonare al procedere avvolgente della prosa e alla vertigine della ripetizione, al ritorno continuo ma mai uguale di alcune strofe, refrain, rime-scheletro della narrazione. Un libro «resistente» oggi è un libro coraggioso, un libro che non veste gli abiti facili della riconoscibilità dei generi, delle copertine, o dei titoli. Eppure La fame delle donne è anche un libro sul cibo e sulla cucina, ma come fonti inesauribili di riflessione primaria, non come fantasmi o vuoti simulacri. Qui la fame è fame, e il cibo vale come nutrimento assoluto del corpo e della mente, e profumi, colori, sapori sono fisicità e dolore e felicità e aspirazione ad altro. Magari, e perché no, a Dio. A una spiritualità che emana dalla religiosità non quieta, non risolta del testo.
Nel romanzo di Marosia Castaldi colpisce prima di tutto l’abbondanza del cibo e la sua preparazione, con decine, centinaia di ricette, disseminate, prese e riprese, veraossatura del racconto. La protagonista, Rosa, una donna rimasta sola con la figlia dopo la morte del marito, riscopre il talento delle mani della madre e comincia a cucinare piatti della sua città d’origine, Napoli, e altri piatti regionali, con un piacere crescente. Un piacere-ossessione di sapori e di ingredienti poveri che fanno parte della cultura e della secolare sapienza del Mediterraneo. «Mia madre me li trasmetteva e quando eravamo bambini gli odori della cucina si levavano nella vecchia casa come impronte indelebili del passato», come promessa in terra di «un briciolo di eternità ». Non a caso, già dalle prime pagine l’autrice dichiara un debito importante, quello con Casalinghitudine di Clara Sereni. Così Rosa apre un ristorante speciale a casa sua, dove prepara delle cene che sembrano piuttosto delle faraoniche feste (Il pranzo di Babette che diventa La grande abbuffata) per celebrare la vita e la morte, la creazione e la manutenzione della memoria: «Era nelle mie mani la sapienza millenaria del cibo di donna che cucinando badava alla manutenzione delle ossa della creazione. Mettevo in ordine sugli spalti della morte e della vita le ossa in cui si incista l’armonia delle sfere celesti della storia dal primo all’ultimo giorno della creazione». E qui il pensiero corre alla Cappella di San Bernardino alle Ossa di Milano, chiusa in tutto il suo alto funebre mistero di memoria.
«Il cibo è un Dio che comanda», «il Dio dei corpi», dal cibo al corpo, l’altra spina dorsale della narrazione, attraverso le mani, che sono il mezzo primario della manutenzione del corpo, degli affetti e della sessualità .
Sono donne le protagoniste del romanzo, donne sole, di generazioni diverse, giovani o sulla soglia dell’età di mezzo. Rosa, che cucina e seduce, che lavora trama e aspetta, incontra donne che sono sole come lei, donne che dormono sole nel loro letto, che fanno della loro solitudine una forma di vita e di destino. La vicina, Tina, che usa l’aspirapolvere come un’arma, sua è la prosa del mondo, e due amanti-donne, la «cinese», padana, sinuosa e barocca, e Edda, dal corpo spigoloso. Insieme le tre donne ricompongono una strana famiglia, unita da una sessualità golosa e calda fatta di gesti di tenerezza e di cibo abbondante consumato su tovaglie e lenzuola. Dalla Milano dei Navigli a Monticello, a Vigevano, meta delle femminili fughe amorose, a Pavia e Belgioioso, luoghi di pianura che entrano in dialogo costante con il passato napoletano della protagonista. Napoli, vista dal mare, il mare di Napoli, vero ventre materno a cui tutto ritorna, mare mediterraneo, mare nostrum, fino al sogno della Costa Azzurra, al mare chiaro di Antibes: «questo mare finito scorticato solcato da navi che portano secoli ori millenni vini spezie olii manufatti liberi schiavi… Mare di guerra mare di carta terra mare di carta carne Mare egiziano siculo africano mare italiano di spagna di francia di grecia e d’albania mare romano mare inchiostrato manufatto articolato mare affaticato mai stanco di partire mediterraneo».
Marosia Castaldi ha il coraggio di parlare di cibo, di cucina, di ricette, di corpo femminile, di amori tra donne, senza cadere mai nello stereotipo, senza rassicurarci, protetta dallo scudo di una scrittura potente e evocativa. La torrenzialità della sua prosa trova in questo racconto una sorta di messa a registro favorita dalla misura più breve del testo. Alla punteggiatura si sostituisce la maiuscola a indicare il cambio della frase, e la forte musicalità da poemetto in prosa, la ripetizione con varianti delle frasi-chiave o leit-motiv, accompagnano il lettore in questa avventura che si apre a una possibile discorsività . È un mare scritto di sogni e di visioni, appunto, che si muove, che ondeggia e si increspa, che segue il respiro tumultuoso della narrazione.
Related Articles
“Col processo Lincoln racconto un caso di giustizia tradita”
Robert Redford e “The conspirator” “Non faccio film di sinistra ma la politica m’interessa”. Dal 15 nelle sale Usa
Vite spezzate dall’insicurezza