A SCUOLA DA FRANCOFORTE
Francoforte non è solo la sede della Banca Centrale Europea, o la città dove ogni ottobre si tiene la fiera del libro, ma ha anche legato il suo nome a una delle più famose scuole filosofiche del Novecento, l’Istituto per la ricerca sociale. La sede, un edificio in stile razionalista, è dalle parti della Fiera. Il direttore, dal 2001, è Axel Honneth (nato nel 1949), esponente della terza generazione della scuola e autore di una teoria del riconoscimento in cui confluiscono la dialettica di Hegel, la psicologia di Winnicott e di Mead e la biopolitica di Foucault. Con una particolare apertura nei confronti delle ricerche di Luc Boltanski, con cui condivide l’interesse sui paradossi del capitalismo, che si presenta, insieme, come società della conoscenza molto accogliente e come forza creatrice di progressive forme di esclusione. Così, i temi di ricerca vanno dalla disuguaglianza sociale alla sociologia e psicologia della famiglia, dalla teoria della società alla sociologia del diritto, dalla teoria del lavoro a quella dei media e dell’estetica. Mi è capitato di vedere i due gruppi al lavoro a Sofia, nel 2010, in un convegno internazionale sul futuro della teoria critica, e mi è parso di assistere allo happy ending di una storia filosofica spesso caratterizzata da forti incomprensioni tra Germania e Francia.
Ma conviene fare qualche passo indietro ponendosi due interrogativi elementari. Che continuità c’è tra l’istituto attuale e quello fondato nel 1923 da Felix Weil (1898-1975) e poi diretto dal 1930 da Max Horkheimer (1895-1973), su cui hanno riportato l’attenzione due libri usciti in Francia, intitolati entrambi L’Ecole de Francfort di Jean-Marc Durand Gasselin e di Paul-Laurent Assoun? E, a parte la coincidenza cronologica e tematica, che forse avrebbe suscitato qualche riflessione a Theodor Wiesegrund Adorno (1903-1969, che entra nell’Istituto nel 1938) sull’industria culturale e la sua tendenza alla standardizzazione, che cos’è questo movimento (di cui si potrà trovare una eccellente presentazione di Enrico Donaggio, La scuola di Francoforte, Einaudi)?
Intanto, sono per l’appunto tre generazioni, decisamente meno della scuola di Atene, ma comunque molto, 89 anni. Con l’ascesa al potere di Hitler l’istituto deve emigrare a Ginevra, di qui a Parigi e infine in America, prima alla Columbia University (dove viene coniata l’espressione “teoria critica” per non dire “marxismo”), poi in California. Alcuni suoi componenti non torneranno, come Marcuse catturato fascino californiano di La Jolla. Altri non ci arriveranno nemmeno, come Walter Benjamin (la cui appartenenza allo “inner circle” della scuola è ancora controversa), suicida nel 1940 in Catalogna, per timore di essere consegnato ai tedeschi. Altri, come appunto Horkheimer e Adorno, ritorneranno nel dopoguerra, dopo aver scritto nell’esilio americano un libro epocale, la Dialettica dell’illuminismo, che fa da pendant al Doctor Faustus di Thomas Mann, vicino di casa di Adorno a Pacific Palisades.
Già nella prima generazione le differenze erano grandi. Horkheimer (che nel dopoguerra sarà rettore a Francoforte) era un boss, fumava sigari e comandava a bacchetta Adorno, mi ha raccontato Gadamer tanti anni fa, ricordando che quando loro (lui, Karl Là¶with e altri), da Friburgo dove studiavano con Heidgger, andarono per un convegno a Francoforte, si sentirono una massa di provinciali. La questione del “provincialismo” dei friburghesi è forse la via migliore per accedere alla caratteristica fondamentale della scuola di Francoforte. Heidegger aveva scritto nel 1934 un testo intitolato “Perché restiamo in provincia”, in cui si vantava di avere rifiutato una chiamata a Berlino. Già poco inclini alla provincia, i francofortesi furono condannati a un ben più ampio cosmopolitismo dall’emigrazione.
Il filo conduttore che tiene insieme tutte le tendenze e caratteri dispersi nello spazio e nel tempo della scuola di Francoforte è proprio il fatto il riflettere l’anima estroflessa della Germania, quella della civiltà europea contrapposta al sangue e suolo. Il che significa anche una apertura al giornalismo e al saggismo. Habermas (nato del 1929), l’esponente più illustre della seconda generazione, collabora da sessant’anni esatti alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui nei primi anni Cinquanta pubblicava non solo articoli sugli esperimenti di Huxley con la mescalina, ma soprattutto, nel 1953, condannava apertamente gli aspetti inquietanti di Heidegger negli anni Trenta. Ed è a un allievo di Adorno come Rà¼diger Safranski che dobbiamo Heidegger e il suo tempo, la biografia che nell’originale tedesco trae il titolo dai versi di Celan “La morte è un maestro tedesco”, a cui oggi bisogna aggiungere un testo fondamentale come Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia di Emmanuel Faye (a cura di Livia Profeti, L’asino d’oro).
Al di là della politica, è una questione di stile. Heidegger si compiace di vedere l’intraducibile nel tedesco, mentre Adorno sostiene che “le parole straniere sono come gli ebrei nella lingua”, e largheggia in espressioni inglesi e francesi. In tutto questo c’è anche molto radical-chic. Vedi le Lezioni di sociologia della musica di Adorno, che mi convinsero non solo del fatto che non avevo mai sentito musica, ma che non ne avrei mai sentita in avvenire, perché alla fine l’unico ascoltatore competente risultava essere qualcuno come il Barone di Charlus, nella Recherche. Vacanze a Silvaplana, ma in alberghi di prim’ordine, mica le topaie dove andava Nietzsche, il che darà il destro a Gyà¶rgy Lukà¡cs per ironizzare sul marxismo alla occidentale dei Francofortesi in un saggio intitolato “Grand Hotel Abisso”.
Dovendo scegliere, però, molto meglio il radical chic che il sangue e suolo. Il gergo dell’autenticità (1964) è il saggio di Adorno dove si prende di mira l’ossessione dell’autentico ridotta a maniera e a mania in Heidegger. Un tema che si ritrova in La mano di Heidegger (1991) di Derrida. Qui si apre un capitolo importante per il cosmopolitismo francofortese. A lungo ignorandosi a vicenda, i francofortesi e filosofi francesi come appunto Derrida o Foucault erano oggettivamente congiunti dal riferimento alla triade Nietzsche-Freud-Marx. Alla fine si conosceranno. Habermas incontrerà Foucault a Berkeley poco prima della morte, Foucault dichiarerà la sua vicinanza alla scuola di Francoforte e Habermas definirà il pensiero di Foucault come “una freccia scagliata nel cuore del presente”.
Le incomprensioni erano però tutt’altro che appianate. Nel 1985 Habermas pubblica Il discorso filosofico della modernità , molto critico nei confronti di Derrida, con il quale però avrà tutto il tempo per riconciliarsi. Sono stato testimone di quello che credo sia stato il primo incontro tra Habermas e Derrida nel 1999 a New York, propiziato da Giovanna Borradori che poi li metterà in dialogo sul post-11 settembre (Filosofia del terrore, 2003). Ho assistito anche alla conciliazione solenne, il 22 settembre 2001, a Francoforte, nel giorno del conferimento del Premio Adorno. Derrida tiene di fronte a Habermas un discorso su Benjamin, e aggiunge venti righe, scritte all’ultimo momento, in cui condanna la reazione di Bush all’attacco alle Twin Towers, e la sua iperbolica richiesta di una “giustizia infinita”. Dopo la pace di Francoforte Habermas e Derrida apparvero insieme in L’Europa alla ricerca dell’identità perduta (La Repubblica, 4 giugno 2003), con Derrida ormai gravemente malato. Quando lo vidi mi disse che si era limitato a firmare il testo di Habermas (non ce la faceva più a scrivere) ma che approvava tutto. E, oggi, quando Francoforte è, per tutti, solo la Bce, cioè la capitale della finanza, l’Europa potrebbe, filosoficamente, rileggerlo.
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