Cecilia Mangini “Nell’era dei film-cartolina i documentari alla Pasolini ci restituiscono la memoria”
«Sono stati anni bui. Pensavo che il documentario fosse morto, anzi ucciso. La rinascita di oggi mi riempie di una grande attesa». Pomeriggio romano afoso, terrazza di un bar a Ponte Milvio. Cecilia Mangini ordina un gelato crema e cioccolato. Stretta nella sua giacca scura, un corpo esile ma vigoroso, qualche colpo di tosse. «Sconto adesso cinquant’anni di fumo». Nelle vecchie foto in bianco e nero, è sempre elegantissima, capello corto, la sigaretta in mano. Mangini ha diretto oltre quaranta documentari, firmato reportage fotografici, sceneggiature di film. È stata la prima regista italiana, la prima donna a passare dietro a una macchina da presa. Alla fine degli anni Cinquanta, insieme ad alcuni intellettuali come Vasco Pratolini, Pier Paolo Pasolini, ha raccontato i postumi del fascismo e la frattura che si andava creando tra due Italie, quella arcaica, contadina, e quella, piena di promesse, dell’industrializzazione, del miracolo economico. «Del cinema ho amato tutto» ricorda. Gli imprevisti durante le riprese, l’odore acido della pellicola, le fatiche del montaggio. Il suo sguardo sulla realtà è stato animato da un’autentica passione civile. Nata a Mola di Bari nel 1927 ma cresciuta a Firenze, ha sfidato il conformismo e la censura dei tempi, inoltrandosi in un territorio allora esclusivamente maschile. Non c’era nessuna signora a quel tavolo s’intitola il documentario che Davide Barletti e Lorenzo Conte hanno dedicato alla vita di Mangini. «Stranamente, sono i giovani che si interessano di più al mio lavoro. È come se il passaggio di testimone avesse saltato una generazione».
Di recente, la sua opera è stata al centro di diversi festival, riscoperta in alcuni libri. Ha ricevuto anche proposte di tornare a girare. A ottantacinque anni comincia una nuova vita?
«Non conosco la tecnologia digitale, dovrei farmi aiutare. Qualche progetto c’è ma nulla ancora di concreto. Certo quando vedo le cose nuove, creative di Agnès Varda, mia coetanea, la tentazione è forte. Confesso di essere stata colta di sorpresa da questo rinnovato interesse nei miei confronti. C’è una nuova leva di registi bravi e indipendenti che dicono di ispirarsi alla nostra tradizione di impegno e militanza. Il cinema, ricordiamocelo, nasce come documentario, da quel famoso treno che arriva in stazione».
Sente di aver qualcosa da insegnare ai nuovi documentaristi?
«C’è stata una cesura tra padri e figli, che ha provocato un vuoto abissale negli anni Ottanta e Novanta. Ora sono i nipotini a ricollegarsi alla nostra generazione. Non mi riconosco in un ruolo di maestra. Più che insegnare, penso che si possano creare delle assonanze. La memoria ristruttura il passato. Il linguaggio cinematografico di oggi non è paragonabile al nostro. Io avevo la fissazione dei primi piani, ero una devota del montaggio. Caratteristiche ormai rare».
Fare cinema è scrivere su della carta che brucia, diceva Pasolini.
«I documentaristi sono dei rompiscatole per natura, hanno un rapporto polemico con il presente. Il format televisivo ha trasformato tutto il cinema. Io a un certo punto ho dovuto smettere perché i produttori non volevano più film ma solo cartoline. Ogni tanto, per fortuna, capita ancora di vedere film scomodi, fuori dagli schemi come Diaz di Daniele Vicari».
Da dove nasce questo rinnovato interesse per il cinema del reale?
«Il documentario rimane un genere di nicchia in Italia, ma proprio grazie al digitale i costi si sono molto abbassati e così molti giovani possono avvicinarsi al linguaggio cinematografico, sperimentando o riprendendo in parte la vecchia tradizione. La lunga egemonia del cinema-cartolina forse ha provocato una reazione anche estetica, aprendo spazi per una testimonianza del presente più complessa e problematica. Ho l’impressione che l’attuale momento storico, di ricostruzione politica e civile, sia propizio a un ritorno di critica sociale e militante. Esattamente come accadeva ai miei tempi».
La diverte vedere che ci sono ragazze che guardano e si riconoscono in Essere Donne, il suo documentario del 1965, riprogrammato in diverse manifestazioni?
«Quello fu un inaspettato regalo del partito comunista. Anche se non ero iscritta al Pci, fu Botteghe Oscure che mi permise di realizzare quello che allora era il sogno di quasi tutti i cineasti. Entrare in fabbrica. Ho passato settimane con queste donne che erano madri-mogli-operaie. Nessuno fino ad allora si era occupato di raccontare davvero la loro vita, nel quotidiano. Avevano già una straordinaria consapevolezza della pesantezza dei loro tanti, troppi ruoli. È vero: qualche giovane mi dice che quel peso esiste ancora oggi. Penso invece sono stati fatti enormi progressi».
Quanto le è costato personalmente essere una pioniera, la prima documentarista italiana?
«Ero l’unica donna in mezzo a tanti uomini. Ma proprio per questo non mi vedevano come un nemico. La reazione ostile è scattata solo quando anche altre hanno deciso di passare dietro alla macchina da presa. Mi sono divertita a scrivere e dirigere film. Non è mai stato un sacrificio. Combattere la censura, affrontare le polemiche, realizzare un film sul fascismo anche quando l’Istituto Luce mi ha impedito di accedere agli archivi, essere imputata in un processo per “istigazione a delinquere”. Ogni volta, cercavo una nuova sfida».
Il processo è avvenuto per Ignoti alla città , il suo documentario girato nelle borgate romane ispirato da Ragazzi di vita di Pasolini.
«Il ministro Tambroni si è aggrappato a una scena in cui dei ragazzi rubavano la ciotola di spiccioli di un giornalaio. La denuncia non era contro di me, ma contro Pasolini che aveva scritto il testo che accompagnava le immagini. Quando gli ho poi chiesto di partecipare anche a Stendalì, il mio film sulle lamentazioni funebri delle donne in Puglia, era scettico perché non conosceva il griko. Alla fine ha creato dal nulla un canto funebre magnifico. Così com’è straordinario il testo che ha regalato a La canta delle marane, un monologo in prima persona, seguito ideale di Ragazzi di vita».
Dopo la morte di Pasolini, nel 1983 ha ripercorso i suoi Comizi d’amore, interviste sull’evoluzione della morale dei costumi sessuali.
«È uno dei tanti lavori che ho realizzato insieme a mio marito Lino Del Fra. Abbiamo sempre lavorato in coppia. Lui era più bravo di me, anche se ora se lo sono dimenticati. In questo paese quando muori vieni cancellato».
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