L’Arte e i suoi cugini

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 Non solo artisti. Ma anche filosofi, scrittori, scienziati, fisici, biologi. L’esercito di Documenta, la regina delle mostre d’arte che si svolge ogni 5 anni a Kassel e oggi è giunta alla 13.a edizione, è pronto: 150 personalità  provenienti da 55 paesi. La rassegna aprirà  al pubblico il 9 giugno e la direttrice Carolyn Christov-Bagarkiev – nata negli Stati Uniti da madre italiana e padre bulgaro, vive tra Roma, Kassel e New York, è stata curatore del Castello di Rivoli e ha già  diretto la Biennale di Sidney –, ne racconta i presupposti, le ragioni, il senso. Se le chiedi perché ha invitato un mondo che con l’arte sembrerebbe non entrarci niente risponde ridendo: «E perché no allora?». E spiega: «L’autonomia dell’opera d’arte è un’idea settecentesca, né gli antichi greci né coloro che lasciavano graffiti nelle grotte, la percepivano così. Perché dovrei rifarmi a una concezione che ha una vita così breve? Se io, che sono figlia di un’archeologa, mi ricollego all’antichità  ritrovo i saperi che comunicano e la convinzione che non esistono l’arte, la scienza, il romanzo in assoluto, ma soltanto dei luoghi in cui questi si definiscono. Inoltre c’è un’altra ragione molto importante: noi stiamo vivendo un’epoca in cui, per la prima volta, il futuro del pianeta dipende da una specie sola, quella umana. È una responsabilità  immensa. Per questo bisogna affinare la nostra umiltà  e metterci in ascolto delle altre specie. Trovo che sia un buon momento per gli artisti per parlare con i loro cugini, come i filosofi o i fisici. Il senso che posso dare, e solo provvisoriamente, a questa Documenta è quello di un luogo in cui alcune sensibilità  in campi apparentemente lontani si ritrovano intorno a qualcosa che li accomuna. È uno spazio che cerco di tenere sempre aperto». Come avviene materialmente questo scambio? «Intanto ho invitato persone che in quello che fanno, che sia arte oppure no, hanno sposato l’idea del dialogo. E questo non significa fare ricerca interdisciplinare, tutt’altro. Ognuno ha la sua specificità . C’è il traduttore del linguaggio delle pietre che è il geologo, di quello degli animali, lo zoologo, di quello dell’arte. Per fare un esempio pratico Donna Haraway che si è occupata di filosofia, biologia, zoologia, ha voluto esporre insieme a Tue Greenfort, in un piccolo edificio sul lago all’interno del parco, un archivio creativo di tutte le opere che hanno a che fare con l’interazione della specie: da Joseph Beuys con il coyote a Marina Abramovic con l’asino fino alla giovane Judith Hopf che insegna a contare a un cavallo. Bellissimo. L’effetto è un grande acquario in cui tutto scorre». Altre opere che trattano di interazione, della responsabilità  dell’artista di mettersi in ascolto? «Per esempio la casetta nel bosco dell’artista thailandese Araya Rasdijarmrearnsook. Lei vivrà  lì in compagnia di un cane randagio per tutta la durata della mostra: l’animale umano incontra l’animale non umano. I visitatori li guarderanno da fuori, come dal buco della serratura. Intorno ci sono dei monitor con delle immagini. È anche una riflessione sull’immagine come barriera con lei si tira fuori dall’obbligo di crearne ancora». Come ha scelto gli artisti? «Ho tenuto presente la storia di Documenta, nata nel 1955 in un Paese in cui la società  civile cercava di ricostruire la propria identità  dopo la dittatura e la guerra. Così ho viaggiato molto in luoghi che vivono una situazione riconducibile a quella della Germania del dopoguerra, uno stato di speranza o di assedio, come la Cambogia, l’Afghanistan o il Libano. Sono ben 5 i libanesi che ho invitato, Abraham Zaatari, Tarek Atoui, Rabih Mroué, Etel Adnan, Walid Raad, una percentuale molto alta rispetto al resto se si considera il numero della popolazione. Perché le condizioni favorevoli dell’arte possono essere rappresentate anche dal dramma. Pensiamo a William Kentridge che si forma nella Sudafrica dell’apartheid». Ci sarà  William Kentridge di cui lei ha pubblicato la prima monografia? «Certo!» Altri suoi amori? «Pierre Huyghe ad esempio collabora con me, non interviene solo come artista. È una mostra fatta di amore. Ma voglio anche stare attenta a utilizzare questa parola sennò, visto che sono donna, viene interpretata subito in termini romantici. L’amore invece è un concetto complesso. Penso a Dante, all’ “amor che move il sole e l’altre stelle”». Nella 12.a edizione di Documenta mancavano gli artisti italiani. Nella sua? «Gli artisti straordinari sono dappertutto. Si potrebbe fare una buona Documenta solo con italiani o francesi, o artisti di Vancouver. Il primo invito che ho spedito per questa edizione è stato per un italiano: Fabio Mauri, scomparso nel 2009, del quale avevo curato una personale a Roma. Sapevo che era malato, così gli ho mandato un fax in una notte del 2008. Ma poi, per fare altri esempi, ci sono Giuseppe Penone e Nanni Balestrini, autore del film più lungo della storia. Siccome è in loop ma non deve ripetere nessuna delle scene, dura più di 2.400 ore, tutto il tempo della mostra». La sua Documenta non ha un titolo, un concetto che la riassuma? «No, proprio no. Il capitalismo si basa sulla diffusione di concetti cognitivi. E io sciopero. Non elaboro concetti. Semmai la mia mostra ha una sua atmosfera. Che è quella dei 100 quaderni». Cosa sono? «Pubblicazioni, piccole e importanti, che abbiamo stampato nel corso di questi 5 anni di lavoro. Gli autori provengono da ogni disciplina e campo del sapere. Il più breve è un racconto di Alexander Kluge, di 4 pagine, il più lungo uno di Balestrini. Ho pubblicato anche gli oggetti distrutti del Museo di Beirut che saranno esposti. Non dimentichiamo che a Kassel nel 1933, durante la dittatura nazista, c’è stato un rogo di libri a Friedrichsplatz dove c’è il Museo Fridericianum, cuore espositivo di Documenta. Così io non spaccio per vero un concetto, ma mi esprimo con i 100 quaderni che sono 100 pensieri differenti. Sono consapevole della precarietà  del tutto». Secondo lei gli artisti, e i non artisti, presenti fanno politica? «Tutto è politica. Da femminista di vecchia data io so con certezza che il personale è politico». E altre suggestioni? «C’è un bel po’ di surrealtà . Uno dei pochi artisti storici che ho voluto in mostra è Salvador Dalì che non era mai stato inserito in Documenta. Il Surrealismo permette una grande libertà . E Dalì quando dipinge Spagna sta chiaramente alludendo alla guerra civile. È perfettamente in linea con ciò che abbiamo detto fin’ora». E gli scrittori chi sono? «Ho voluto, per esempio, Enrique Vila-Matas o Marie Darrieussecq». E cosa faranno? «Hanno una loro postazione all’interno del Baroque Karlsaue Park. Qui ho fatto costruire diverse casette per la mostra, ma ho anche scovato un ristorante cinese dove ho riservato tavoli per gli scrittori che saranno liberi di fare esattamente quello che vorranno. Un ristorante cinese nel bel mezzo di un parco barocco! E chi se lo aspettava? E si chiama pure Gengis Khan! Più surreale di così…».


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