Arrivederci Venere Odissea nello Spazio

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Venere divenne “lo stellone d’Italia” quando il 27 novembre 1871 passò visibile in pieno giorno sul Quirinale, il giorno in cui Vittorio Emanuele II inaugurava il Parlamento dell’Italia riunificata. Si gridò al miracolo, divenne il simbolo della buona fortuna del nuovo Paese. In una noterella dei Quaderni del carcere, Gramsci registra l’origine di un mito che perdura nel simbolo della Repubblica. E ricorda che lo stesso era successo quando Napoleone era tornato trionfante a Parigi dalla guerra italiana nel dicembre 1797, e si diceva che era “la stella di Napoleone”. Peccato che si trattasse di passaggi fasulli, quanto fasulla è l’idea che le crisi si possano risolvere guardando le stelle. I passaggi seri, quelli su cui si concentra spasmodicamente l’attenzione degli astronomi, avvengono quando il pianeta si interpone esattamente tra Terra e Sole. Succede in coppia, a distanza di qualche anno, una sola volta per secolo. Dopo il passaggio del 6 giugno 2012, per la prossima volta si dovrà  attendere il 2117.
Un libro di quasi quattrocento pagine della storica tedesca Andrea Wulf, ripercorre con pignola attenzione la strabiliante avventura scientifica che aveva accompagnato i due passaggi nel 1700. Servì a misurare, con sorprendente approssimazione, la distanza della Terra dal Sole e le dimensioni del sistema solare. Ma soprattutto fu il primo tentativo di cooperazione scientifica su scala planetaria, ebbe un incredibile fallout di scoperte geografiche, botaniche, faunistiche, di conoscenze sugli estremi ancora sconosciuti della Terra. Fu la prima vera globalizzazione nella storia umana, su fondamenta di pura scienza e non di conquista. Paragonabile per portata all’altra grande impresa globale del “secolo dei Lumi”, l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert che, come ci racconta Robert Darnton, fu anche «un grande affare». 
La Wulf, in questo libro piuttosto specialistico ma che si legge come un romanzo di avventure e marineria a vela di Patrick O’ Brian, racconta di come astronomi, scienziati, avventurieri, anche dilettanti, francesi, britannici, russi, tedeschi, olandesi, svedesi e anche italiani, si spinsero per mare e per terra, su velieri, carri trainati da cavalli, slitte, qualcuno anche a piedi, verso gli angoli opposti e più sperduti del pianeta per cogliere con le loro osservazioni il brevissimo momento (da pochi a un massimo di una ventina di minuti) in cui Venere sarebbe apparso come una macchia sul sole. Che la distanza tra un punto e l’altro di osservazione fosse la massima possibile sulla superficie terrestre era essenziale a che il sottilissimo e lunghissimo triangolo su cui calcolare la distanza tra Terra e Sole avesse una base sufficiente a consentire il calcolo. L’idea era partita dall’astronomo inglese Edmond Halley nel 1716. Aveva allora compiuto i sessant’anni, sapeva che non sarebbe sopravvissuto per poter assistere nemmeno al primo degli appuntamenti. Aveva dunque rivolto ai «giovani astronomi» di tutto il mondo un appello in latino. 
Orologi e telescopi erano molto approssimativi. Mancavano comuni unità  di misura. Un miglio inglese aveva lunghezza diversa dal miglio dei paesi di lingua tedesca, e a sua volta variava tra Germania del nord e Austria. Nella sola Francia ne esistevano duemila diverse, che variavano persino tra villaggi vicini. Una lettera spedita da Filadelfia impiegava da due a tre mesi per giungere a Londra, sei da Londra ai porti sulla Manica. Alcuni degli aspiranti all’appuntamento dovettero imbarcarsi anni prima per essere sicuri di raggiungere la meta. Come se non bastasse, all’epoca del primo appuntamento previsto per il 1761, infuriava una guerra mondiale, quella “dei sette anni”: Gran Bretagna e Prussia contro Francia, Russia, Austria e Svezia. Essendoci in gioco anche interessi mercantili, il possesso della colonie nordamericane e dell’India, le preziose isole produttrici di zucchero nei Caraibi, la tratta degli schiavi dall’Africa, le flotte di tutti i paesi da cui partivano le spedizioni scientifiche si davano l’un l’altra la caccia per i quattro oceani. Il francese Le Gentil si era munito di un documento della Royal Society di Londra che intimava alle navi da guerra britanniche di non molestarlo. Era già  quasi in vista della destinazione, Pondicherry, in India meridionale, quando fu costretto a invertire la rotta perché il porto era assediato dalla marina di Sua Maestà  britannica. Decise di procedere alle osservazioni in alto mare, ma si era levata una nebbia impenetrabile. Il suo collega Pingré – ogni paese inviava più spedizioni sperando che qualcuna ce la facesse – si diresse verso i possedimenti della Compagnia delle Indie francesi nell’isola Rodrigues ma dopo quattro mesi di navigazione mancò il suo appuntamento per poche miglia. Gli inglesi furono cannoneggiati dalle fregate francesi o bloccati alle frontiere russe. Un altro inglese vagò per quattro mesi tra le montagne di sant’Elena in cerca di un punto in cui la vista non fosse ostruita da «nebbie e vapori», poi rinunciò. Un osservatore diretto in Siberia finì con la slitta in un fiume ghiacciato. Un altro subì uguale sorte nel golfo di Finlandia. Charles Mason e Jeremiah Dixon, che sarebbero diventati famosi tracciando i confini del Nord America, causa guerra neppure poterono partire. 
Avevano otto anni per prepararsi all’appuntamento successivo, il passaggio del 1769. Andò un pochino meglio perché la guerra era cessata. Gli inglesi inviarono nella Baja California un astronomo gesuita che lavorava in Italia, con l’intento di rassicurare gli spagnoli sospettosi verso i non cattolici. Ma il re di Spagna aveva proprio allora deciso di espellere i gesuiti dai suoi domini spagnoli. Le Gentil tornò in India, ma la jella gli restava appiccicata: non vide nulla perché era annuvolato. Andò meglio, per modo dire, al suo collega matematico Jean-Baptiste Chappe d’Auteroche: fu l’unico a registrare sia l’entrata che l’uscita di Venere, in entrambi gli appuntamenti, ma morì di tifo otto giorni dopo. Fu uno dei ben cinque astronomi periti nella seconda tornata. Il tedesco Georg Moritz Lowitz fece una fine particolarmente atroce: fu catturato dai cosacchi di Pugaciov, torturato e ucciso. Charles Green viaggiava con il capitano Cook. Perì di malaria a Giacarta, assieme a metà  dell’equipaggio. Ma l’Endeavour di Cook era riuscito, en passant, a scoprire l’Australia e a sperimentare una dieta a base di crauti che avrebbe risolto il problema dello scorbuto sui velieri. 
Tutti insieme avevano dato al mondo un assaggio di quel che oggi è Internet.


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