Da Torino a Detroit l’altra faccia della Fiat

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Nei giorni scorsi un altro pezzo di Fiat si è trasmutato in una futura newco che avrà  sede legale olandese, verrà  quotata in una Borsa americana e in una Borsa europea ma non più italiana, e farà  tranquillamente a meno del marchio storico che per oltre un secolo ci venne imposto come un’equazione: “Se va bene la Fiat, va bene l’Italia”. Non era vero, ma per patriottismo fu doveroso crederlo.
Cosa può fare allora un giornalista tenace come Paolo Griseri che ha investito talento e competenza nel guardare l’Italia da Torino per il tramite della più grande impresa manifatturiera privata del nostro capitalismo, un moloch tale da uniformare di sé i rapporti sociali, i consumi e gli assetti di potere? Griseri è dotato della sensibilità  particolare dei narratori piemontesi della fabbrica, intellettuali sensibilizzati a riconoscere il valore del lavoro manuale, della comunità  operaia, degli assetti produttivi e dei saperi che diventano visione della società . È di quelli che hanno cominciato dal basso, acquisendo così la solidità  necessaria a confrontarsi senza pregiudizi, ma anche senza timidezza, con i vertici aziendali e il capitale finanziario degli azionisti. Giocoforza, seguendo un tale tragitto di ricerca, la metamorfosi della Fiat lo costringe a modificare il suo approccio: la nuova natura dell’impresa pretende di essere guardata dall’alto e di confrontarsi con una singola figura enigmatica, affascinante, inedita. Sergio Marchionne. Non più la Fiat degli Agnelli, com’era sempre stata. Nonostante la famiglia torinese conservi il nocciolo duro del controllo sulla holding, e abbia tratto benefici cospicui dalla sua trasformazione, ormai dobbiamo parlare di La Fiat di Marchionne (Einaudi). Per comprendere la novità  che suscita un penoso senso d’abbandono nel capoluogo piemontese e in tutta la penisola, Griseri deve interrogarsi sulla presunta metamorfosi di una singola personalità  manageriale, non a caso percepita apolide fin nella sua biografia di italo-canadese con residenza svizzera. Il percorso di Marchionne, singolare incarnazione dell’energia vitale di un nuovo capitalismo globale, distante dalla postura sabaudo-padronale dell’Avvocato (non ha mai conosciuto Gianni Agnelli, è arrivato al Lingotto dopo la sua morte), ma non per questo meno autorevole e autoritario, racchiude in sé un dilemma storico. Com’è possibile che lo stesso manager abbia dapprima conquistato l’ammirazione dell’opinione pubblica italiana –perfino Bertinotti lo promuoverà  nella categoria dei “borghesi buoni” – per poi esserne avversato con l’accusa di strappare una Fiat indebolita al suo ruolo di “madre” dell’economia nazionale? Il tutto nel breve volgere di neanche otto anni.
Il libro racconta lo spirito innovativo con cui Marchionne appena insediato demolisce una gerarchia di fabbrica anacronistica, riscuotendo la simpatia delle maestranze; e nel mentre persegue il risanamento finanziario, non esita a sfatare i luoghi comuni sul costo del lavoro, riconoscendo che esso incide solo in percentuali trascurabili sui ritardi della Fiat. Ma proprio quando ciò sembra preludere a un idillio con le organizzazioni sindacali, Marchionne pretende di importare in Italia l’accordo antisciopero stipulato alla Chrysler come precondizione al riassetto degli stabilimenti. Inaugura così una stagione di aspro conflitto con la Fiom Cgil. Di più, sposando il modello aziendalistico statunitense di relazioni sindacali (anche se Griseri ricorda che il “primo” Marchionne lo criticava), il manager apolide pretende la deroga dal contratto nazionale di categoria, senza lasciarsi turbare dallo strappo che comporterà  con la Confindustria. Il messaggio non potrebbe essere più esplicito: la Fiat rinuncia al suo ruolo storico di leadership nell’imprenditoria nazionale, è pronta a reggere l’isolamento, si disimpegna dalle relazioni istituzionali. Perché rivendica una missione globale che sempre più la porterà  a individuare nella Chrysler di Detroit il proprio epicentro. Lo stesso destino degli stabilimenti italiani è subordinato alla loro capacità  di produrre veicoli da esportare negli Stati Uniti.
La ricerca di Griseri non poteva che concludersi nella sede della Chrysler risanata, a Detroit. Il cronista torinese vi trascorre due mesi tra rimpianto e ammirazione, per raccontarci l’altra faccia di una Fiat ormai pronta a separarsi dalla sua terra d’origine.


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