E l’Irlanda vota sul patto di bilancio: un test per il rigore
DUBLINO — Le file dei poveri davanti alle cucine benefiche di Atene concentrano le menti persino nell’angolo opposto dell’Europa. Creano ansia anche in una Dublino un po’ rassegnata e un po’ bellicosa. «Se non votiamo sì al referendum sul trattato fiscale, anche noi finiremo come i greci», continua a ripetere, nelle ultime ore della campagna referendaria, Nora O’Donnell, un’attivista a favore del trattato fiscale (il fiscal compact europeo) sul quale oggi l’Irlanda è chiamata a votare. La prospettiva spaventa e — dicono i sondaggi — il voto fondato sulla paura dovrebbe portare i sì a vincere, a ratificare il trattato voluto innanzitutto da Angela Merkel. I no, però, sono in crescita e la sorpresa non si può escludere: quando si tratta di votare sull’Europa, gli irlandesi sono bad boys per definizione (visti da Bruxelles): già nel 2001 e nel 2008 affondarono i trattati di Nizza e di Lisbona, e l’idea di ratificare qualcosa imposto dall’esterno irrita anche questa volta.
La teoria più di moda dice che il referendum di oggi non è importante, al massimo può avere effetti sulla politica interna, non sull’Europa. A differenza che in passato, infatti, se anche dovessero vincere i no avrebbero poco effetto: il trattato è stato accettato da 25 Paesi della Ue e basta che 12 lo ratifichino affinché entri in vigore. Dublino non è nella posizione di fare onde alte. In realtà , il risultato avrà un peso politico più significativo di quanto si ammetta. Si tratta dell’unico referendum che si terrà in Europa sul fiscal compact, l’unico voto popolare su quello che è il cardine della strategia di austerità voluta da Berlino per uscire dalla crisi. Se vinceranno i sì, Frau Merkel potrà dire che persino i riottosi irlandesi seguono la strada tedesca. Se dovessero prevalere i no, la strategia della cancelliera subirebbe un nuovo colpo. Ambedue i risultati non saranno indifferenti all’interno dello scontro che si è aperto in Europa sulla strategia anticrisi voluta da Berlino.
L’Irlanda non avrà benefici particolari dal fiscal compact: la sua crisi (che l’ha portata nel 2010 a chiedere un aiuto europeo di 85 miliardi di euro) nasce non dall’eccessivo debito pubblico ma dalla bolla speculativa, soprattutto immobiliare, che si era creata negli anni del boom. Quando è scoppiata, le banche sono finite a gambe all’aria e il governo si è assunto (con una certa dose di follia) l’onere di ripianare totalmente i loro debiti. Fino a quel momento, l’Irlanda era definita la «tigre celtica»: cresceva a ritmi altissimi, attraeva investimenti e il suo debito pubblico era sceso, tra il 1986 e il 2002, dal 109 al 32% del Prodotto interno lordo, nonostante tasse molto basse e investimenti consistenti nell’educazione. Con lo scoppio della bolla, il debito è balzato al 108% del Pil e quest’anno crescerà ancora. Ma è evidente che il problema di Dublino è lo stato delle banche e i loro debiti, non i conti pubblici.
Ciò nonostante, la campagna referendaria del sì si è concentrata sul rischio che, se dovessero vincere i no, l’Irlanda non avrebbe più accesso ai fondi di aiuto europei, che oggi la tengono in piedi non essendo il Paese in grado di finanziarsi sui mercati. I due partiti di governo — il Fine Gael del primo ministro Enda Kenny e i laburisti — e l’opposizione del partito che per anni ha dominato la politica irlandese — il Fianna Fà¡il — si adeguano alle indicazioni tedesche: dicono che, se votasse no, il Paese non potrebbe avere accesso al nuovo meccanismo di stabilità europeo (Esm) e rischierebbe di diventare una nuova Grecia. I sostenitori del no percorrono invece «il passaggio di Sudest», aperto ad Atene dal partito Syriza di Alexis Tsipras: dicono che l’Europa non avrà mai il fegato di spingere l’Irlanda ai margini e continuerà a erogare aiuti. Su questa linea, i nazionalisti di sinistra del Sinn Féin — un tempo il braccio politico dell’Ira, ancora oggi guidato da Gerry Adams — sono diventati (nei sondaggi) il primo partito dell’opposizione. Lo scontro di Dublino, in altri termini, è lo stesso che c’è nel resto dell’Europa: per questo il referendum avrà un suo peso.
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