La finta innocenza dell’antipolitica

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Col suo inequivocabile suffisso, la parola suggerisce che nella nostra società  si agitino idee e sentimenti collettivi ostili e contrari alla politica. Per questa strada, l’antipolitica rientrerebbe pacificamente nella stessa famiglia verbale dell’antibiotico, dell’antigelo, dell’antifurto. Ma se provassimo a fermarla alla dogana del ragionamento, questa presunta antipolitica, e a perquisirla a dovere, non scopriremmo nient’altro che una politica travestita, nemmeno troppo bene. Basta esercitare un po’ di attenzione per rendersene conto. Nella difficile impresa di superare in stoltezza ed ipocrisia i discorsi dei politici, i rappresentanti dell’antipolitica sono veri maestri. 
La ragione è che sono fatti della stessa identica pasta dei loro presunti nemici. La propaganda è l’unico scopo, l’unico mezzo, l’unica ragione della loro vita. E il consenso televisivo è l’unico aspetto della realtà  che i rappresentanti di entrambi i campi si contendono a colpi di menzogne. In questo contesto, l’antipolitico cambia gli ingredienti, non le regole del gioco. L’innocenza, la purezza, la finta ingenuità  sono strumenti di propaganda non diversi, nella loro essenza, dalla promessa di posti di lavoro, e da tutti gli altri eterni espedienti della vecchia politica. Magari ci fosse, l’antipolitica vera. Ma, voltate le spalle alla ricerca del consenso, bisognerebbe procedere nella direzione del pensiero solitario, dello scarto culturale, del coraggio intellettuale. Cadrebbe davvero a proposito, per chi nutrisse tali nobili aspirazioni, la ristampa del Manifesto per la soppressione dei partiti politici di Simone Weil (Castelvecchi editore). Il fatto che i partiti esistano, scriveva Simone Weil nel 1943, «non è in alcun modo un motivo per conservarli». Perché solo il bene sarebbe un motivo legittimo per conservare una determinata istituzione umana. Ma per ogni partito, la concezione del bene pubblico non può che diventare una semplice petizione di principio e in ultima analisi «una cosa vuota, irreale». La diagnosi di Simone Weil è impietosa e veritiera. Confondendo i mezzi con i fini, i partiti smarriscono la loro finalità  primitiva. Diventano macchine per fabbricare dannose passioni collettive. Annullano quanto di più prezioso c’è nell’esistenza dei singoli, cioè il pensiero individuale. Non hanno altro scopo, infine, che accrescere in maniera indefinita il loro potere. A differenza di ciò che è reale, infatti, i partiti, la cui materia è «l’irrealtà », non conoscono i propri limiti, e vivono nell’esclusivo bisogno di crescere, come se fossero animali all’ingrasso, «e l’Universo fosse stato creato per farli ingrassare». E dunque, non ci si può illudere che il senso della verità  e della giustizia si conservi negli individui che scelgono di aderire a un partito, rinunciando alla propria «luce interiore» e insediando così la menzogna al centro dell’anima. 
La conclusione è nitida come al termine di una dimostrazione matematica: «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene allo stato quasi puro». È quasi inutile aggiungere che i partiti del 1943 erano ben diversi da quelli di oggi, se non altro per la statura umana e intellettuale di molti dei loro capi. E che nemmeno l’acume di Simone Weil poteva prevedere l’effetto mortificante del dibattito televisivo, dove è fatale che a vincere sia l’idea più rassicurante, più conforme alle aspettative del maggior numero, e in definitiva più stupida. Ma a tutto questo non si può opporre la finta innocenza di un’antipolitica che aspira alle stesse glorie, alle stesse poltrone, allo stesso potere della politica. La lezione più utile e necessaria è ancora quella di Simone Weil: non compromettersi con ciò che si disprezza, tentare di pensare ciò che ancora non è stato pensato, e soprattutto, non barattare la propria «luce interiore» con le finte promesse dell’opinione e del potere.


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