«Cambiamo la cultura maschile» Mobilitata la Nazionale di calcio

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Ma se si è convinte, come lo è Titti Carrano, presidente del Di.Re., l’unica associazione nazionale che mette in rete 60 centri antiviolenza di ogni parte d’Italia, che per fermare quelli che loro chiamano «femminicidi» bisogna cambiare la cultura maschile, allora forse uno slogan gridato su un campo di calcio può più di mille leggi repressive. 
La partita Italia-Lussemburgo fa venire voglia di comparare il nostro Paese al resto d’Europa in tema di violenza sulle donne? Come siamo messi?
Non ci sono picchi italiani di violenza contro le donne perché parliamo di un fenomeno trasversale a qualsiasi appartenenza, religione e cittadinanza. Però da noi, a differenza che nel resto d’Europa, questo problema non diventa una priorità  dell’agenda politica. In Spagna, o nel Nord Europa si è fatto molto nell’ambito della politica di genere, per esempio con interventi specifici sul congedo parentale obbligatorio dei genitori in caso di nascita del figlio. Invece in Italia l’unica reazione politica è il pacchetto sicurezza, sono le politiche securitarie. Come se la violenza contro le donne, che avviene soprattutto in famiglia, sia un problema di sicurezza. In altri Paesi europei le istituzioni stanno al contrario tentando di cambiare la cultura maschile, perché il problema è sempre quello: per combattere questo fenomeno bisogna cambiare la cultura sulle donne. 
Mi spieghi meglio: è un problema culturale ma è indipendente dal patrimonio sociale e di conoscenze personali. Perché? 
Mi riferisco a una cultura patriarcale che è diffusa in tutto il mondo e che si può manifestare in tanti modi a seconda delle aree geografiche. Il nostro obiettivo è creare una cultura diversa per arrivare a un cambiamento nella relazione tra i sessi. Soprattutto vogliamo far emergere un fenomeno sommerso che vede nell’uccisione della donna solo l’ultimo atto. L’atto più estremo – che non è un raptus né un delitto passionale – di una cultura di violenza. Ogni giorno incontriamo donne che non conoscono l’esistenza dei centri antiviolenza, che non sanno di poter essere aiutate. 
Ma non bisognerà  combattere la cultura della violenza che persiste trasversalmente in certi ambiti sociali fatti di uomini e donne?
Nell’esperienza quotidiana dei centri vediamo che la violenza viene giustificata dalla donna solo perché si sente colpevole. Ma la colpevolizzazione della donna fa parte del processo di violenza dell’uomo. In qualsiasi parte del mondo i meccanismi sono sempre uguali: la donna che ha subito violenza si vergogna, ha paura di ulteriori brutalità , e teme di non essere creduta. Ecco perché si isola. 
Quanto è importante in una società  che la donna occupi posti importanti, ottenga ruoli apicali e di potere?
Poco. È più importante cambiare le relazioni di genere, il tipico rapporto stereotipato della prevaricazione, della violenza, del considerare la donna un oggetto. A gennaio 2012 la Special rapporteur del Cedaw, il comitato Onu sulle discriminazioni contro le donne, Rashida Manjoo, ha espresso preoccupazione per il fatto che da noi «persistono attitudini socio culturali che condonano la violenza domestica». E ha chiesto al governo italiano di assicurare che le donne vittime abbiano un’immediata protezione e che siano garantiti rifugi sicuri e ben finanziati su tutto il territorio nazionale. Inoltre, Manjoo si è detta preoccupata per l’immagine della donna in Italia come oggetto sessuale, perché sono proprio gli stereotipi a costruire il terreno dove nasce l’aumento della violenza contro le donne.


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