Ultras e calciatori. La foto dell’intrigo di Genova

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GENOVA — «Boselli non sapeva». A distanza di un anno, le scritte ci sono ancora. Quella più grande campeggia su un muro di corso Sardegna, una specie di murales a futura memoria, di quel che invece tutti sanno e preferiscono tacere. 
La sera dell’8 maggio 2011, terzultima di ritorno, a Genova si gioca uno strano derby. Il Genoa non ha più nulla da chiedere al campionato, la Samp deve fare punti per evitare la più improbabile delle retrocessioni. Nel secondo tempo, al pareggio dei doriani, seguono venti minuti surreali dove le due squadre restano ferme. La curva Nord comincia a protestare. «Venduti, venduti», ma soprattutto «Il derby non si vende». Dagli spalti la tensione si trasmette al campo, la partita, soporifera fino a quel momento, diventa una corrida nei minuti di recupero. Al novantaseiesimo Mauro Boselli, centrocampista argentino, segna un gol alla Maradona che condanna la Samp alla B. Non è la fine di una partita, ma l’inizio di un’altra storia. Omar Milanetto, fino a quel momento giocatore simbolo del Genoa, manda a quel paese la sua curva. «Bastardi», urla. Dietro di lui, Domenico Criscito e Dario Dainelli con l’espressione spaventata, non proprio la faccia di chi ha appena vinto uno dei derby più sentiti d’Italia. 
La scritta sui muri di Genova non è soltanto uno sfottò ai cugini caduti in disgrazia, ma una specie di avvertimento. Con la sua prodezza l’inconsapevole Boselli avrebbe fatto saltare un patto siglato pochi giorni prima, in un ristorante, tra giocatori di squadre che dovrebbero essere avversarie feroci. Le voci non sono mai andate via, come quelle scritte. Milanetto viene ceduto a furor di popolo, Criscito era già  in partenza. Ma quell’episodio incrina il rapporto simbiotico che si era instaurato con una parte della tifoseria, crea un alone di sospetto e veleni che si è trascinato anche per tutta questa stagione. 
Nessuno, nel mondo dei tifosi genoani, sa dire quando è cominciato l’imbarbarimento, parola loro, oggi che sono in vena di autocritica. Nessuno, neppure nei sogni di grandezza più sfrenati, avrebbe potuto imporre ai giocatori di togliersi la maglia, come avvenuto nel recente Genoa-Siena, umiliazione in mondovisione e segno del potere assoluto esercitato da un tifo viscerale e invasivo come pochi. A tutti sembra quasi normale quell’incontro del 12 maggio all’Osteria del Coccio, ristorante di classe nel quartiere di Sturla. Milanetto e Criscito che vengono convocati nel parcheggio per dare spiegazioni su quel derby vinto contro voglia. Insieme a loro c’è anche Giuseppe Sculli, che sembra passare di lì per caso. È stato loro compagno di squadra fino a pochi mesi prima, gioca nella Lazio, la squadra che il Genoa dovrà  incontrare nell’ultima di campionato. 
Sembra normale, che dei calciatori professionisti debbano rendere conto ai loro tifosi. A gente come Fabrizio Fileni, da tempo riferimento della tifoseria genoana. Fu fermato al G8 del 2001 durante gli scontri in piazza Alimonda, oggi è operatore di comunità  dopo esserci entrato in qualità  di ospite in seguito a una serie di problemi giudiziaria. A un capo ultrà  come Massimo Leopizzi, fondatore della Brigata Speloncia, un tipo che nel 2002 fu condannato a due anni di carcere: aveva gambizzato un uomo per una questione di droga. Nel 2005 si presentò sotto casa della moglie armato di due revolver e di un coltello a serramanico. Lo fermarono due poliziotti, uno di loro si vide puntare la pistola in faccia, l’altro ebbe il setto nasale fratturato. 
Al ristorante, caso strano, c’è anche Safet Altic, cittadino bosniaco considerato vicino al clan mafioso dei Fiandaca che tanti interessi coltiva a Genova, un signore attualmente detenuto per traffico di stupefacenti. Il grande amico di Sculli, come si evince da qualche intercettazione telefonica. «Oh frate» lo apostrofa l’attaccante in una chiacchierata del 10 maggio. «Ricordati quei documenti frate… ricordati quei documenti… muoviti fratello minchia che sono nella m…. pura».
Sculli ricorda al «fratello» di essere stato chiamato da qualcuno e di essere dovuto andare. «Lo sai, lo sai che dovevo fare certe cose, io te lo dico, non stavo scherzando, mi hanno chiamato e sono dovuto andare frate… tu lo sai». Altic viene convocato, con urgenza, ma lui specifica: «Ti giuro che ne ho solo tre, guarda mi ha fatto un assegno quell’altro…» Sculli si preoccupa: «Ma gli altri non riesci a recuperarli?» «Per domani pomeriggio» è la risposta. «Perché mi ha fatto un assegno non so dove cambiarlo adesso, vuoi che vengo dimmi?». «Eh sì» conclude Sculli «se vieni frate mi fai un grande piacere che son dovuto…». Sculli è l’anello di congiunzione tra Genoa e Lazio, l’uomo che secondo la procura di Cremona ha dato l’incarico a Safet Altic di rastrellare il denaro da destinare alla scommessa sulla partita tra le due squadre. Nipote di Giuseppe Morabito detto Tiradritto, capo della ‘ndrangheta, fu squalificato per otto mesi: aveva preso parte alla sospetta combine di un Crotone-Messina disputato nel 2002. È lui che quest’anno, durante la contestazione di Genoa-Siena sale sugli spalti e parla nell’orecchio del capo ultrà  Piermarco Pellizzari detto Cobra, siglando un patto con i tifosi inferociti. 
In quella curva c’erano anche Fileni e Leopizzi, che ai tempi della retrocessione in C del Genoa per la combine di Genoa-Venezia vennero sentiti in procura. Girava voce che avessero registrato un loro incontro con Preziosi, una cassetta dalla quale sembrava che il presidente del Genoa avesse dato il suo assenso all’aggiustamento di altre partite. Oggi scrivono, in tono piuttosto minaccioso: «Chi è stato chiamato a testimoniare allora ha risposto “no”». Anche questo sembra un appunto a futura memoria. Sandro Vaccaro, legale di Safet Altin, sostiene che l’amicizia del suo assistito con Sculli è risaputa, non c’è da stupirsi e le scommesse non c’entrano. Preziosi dice di essere umanamente dispiaciuto. «La società  è estranea ai fatti, anzi, è parte lesa». La presunzione di innocenza è un dovere. Ma chi vuole toccare con mano uno dei mali del nostro calcio, la promiscuità  tra mondi che non dovrebbero neppure parlarsi, faccia un salto a Genova.


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