Orfeo tra i fuochi di Napoli

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Dopo l’incursione saggistica di Asino chi legge (Guanda 2010), dedicato al mondo della scuola. Antonella Cilento torna alla materia narrativa che le è più cara, il romanzo, con La paura della lince , per l’editore napoletano Rogiosi (pp. 232, euro 16). Già  in Neronapoletano , romanzo del 2004, Cilento aveva mescolato i temi cari alla sua scrittura da sempre – Napoli, e la napoletanità , viste però non con spirito agiografico, ma anzi impietosamente critico, sottopelle, l’amore per la grande arte soprattutto di Seicento e Settecento, lo sfascio e l’incuria di tanta parte dell’Italia contemporanea cui a volte si oppongono insperate sacche di resistenza, il legame eternamente ritornante tra passato e presente – a una trama di intrigo inquietante, appunto al nero/ noir, e anche in questo romanzo ritroviamo la stessa alchimia. «La lince vigliacca, l’animale da preda violento e potente che si rintana dietro le gambe di un ragazzino» è quella che appare, anzi affiora dai frammenti rotti di uno specchio macchiato di sangue, in un quadro «di mano magnifica», un giovane San Giovanni Battista attribuito a Guido Reni. Sarà  Nino, il vecchio custode morto carbonizzato nell’incendio, forse doloso, del Museo Archeologico del Castello Aragonese di Baia a consegnare, nell’agonia della morte per fiamme, alla quarantenne appena licenziata Aida Festa la preziosa immagine celata, ustionandole le mani. L’aggressione e il tentativo di rapina subito in casa da Aida qualche tempo dopo, e le successive apparizioni e riapparizioni di un paio di seducenti scarpe verdi dal tacco altissimi, unico, surreale oggetto del furto, daranno il via alla storia, scaraventando all’improvviso la protagonista – dalle mani guantate di plastica per proteggere i cheloidi delle cicatrici dell’incendio – in un mondo in cui niente e nessuno è quello che sembra. Tocca il mondo con cautela, dietro la plastica, Aida, che alle ustioni procuratole da Nino nel tentativo di salvare lo specchio a lui caro – per ragioni che forse sono e forse non sono quelle che possiamo immediatamente immaginare – unisce altre e più nascoste ferite: l’antica gelosia e il sempre fresco senso di colpa verso la sorella minore Elena, bellissima e tossica, scomparsa da anni, forse morta; l’impossibilità  di costruire e coltivare qualcosa, che sia un lavoro o un amore, in un ambiente sociale, umano e professionale che sembra non avere più nulla da offrire alle persone normali: «In Italia si è fighi o si è morti, gli altri in mezzo campano in attesa della seconda eventualità ». Ma, come scrive l’autrice nel romanzo precedente a questo, Isole senza mare (Guanda 2009), «I morti ci seguono, sono la nostra coda di drago. Ci spingono, ci trattengono, se ci voltiamo scompaiono. Ognuno di noi è come Orfeo». Ne La paura della lince , i morti, in una Napoli tra morta e viva, dimostrano – con inattesi colpi di coda di drago – di saper tornare, prima o poi, sorprendentemente vivi.


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