Miti rivisitati per una fiaba noir

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Con l’apparente innocuità  del tono fiabesco e della farsa grottesca Judy Budnitz punta dritto al cuore di tenebra, al nocciolo duro e tossico del male. L’altro colore dell’inverno ( traduzione di Martina Testa, Alet, pp. 304, euro 16) è il primo e per ora unico romanzo della scrittrice (classe ’73) che fa base a San Francisco. Uscì in America nel 1999 e fece drizzare qualche antenna, soprattutto ai segugi di Granta. Perché ci abbia messo quindici anni ad approdare in italiano attiene ai misteri editoriali di questo paese. Ma qui poco conta. Ilana è una bambina. 
Vive in un agglomerato di case in mezzo a una foresta che sa tanto di foschi mitologici Carpazi (e anche un po’ delle scorie bibliche di un Nick Cave). È inverno per nove mesi all’anno, gli altri tre sono di fango. L’unico colore è il bianco, sul bianco si disegnano le tracce di uomini il cui unico compito è sopravvivere, pregressi al lavoro ma non allo spossamento di restare biologicamente vivi. Prosciugati dal gelo nei sentimenti, assediati dall’orrore di un mito che, solo, li spiega e dispiega davanti ai loro occhi il senso dei cicli, l’assurdità  di andare avanti e perpetuarsi. A questo atavismo non è però alieno il presente. Un presente di precoce Novecento, di guerra. Ci sono i soldati. C’è brutalità , obbligo e strage. 
C’è un terrore superiore che prenderà  prima le spoglie di tre vecchie laide e profetiche intente a filare, come Parche, e poi degli Einsatzgruppen nazisti (mai nominati, ma inferibili) incaricati di fare piazza pulita dietro le linee del fronte. E qui scopriamo uno dei punti focali di questo libro, di questa scrittrice (che già  ne aveva dato prova nei racconti): la capacità  di guardare allo stesso modo, di trattare con la stessa scioltezza, realtà  e mito, storia e simbolo, fondendoli in un magma vivo che è insieme fiaba e memoria, che si permette di calcare i toni a scopo di parabola o visione, senza mai perdere il filo di ancoraggio al vero. Un gioco continuo con il verosimile che si è abituati per pigrizia a pensare in altre, più meridionali, lande,ma che qui funziona benissimo. È sfacciata Judy Budnitz, ci mette dentro la mitologia classica e la superstizione più pagana, la religione grezza di chi è povero per diritto divino, con tanto di streghe e spiriti perseguitanti e uomini lupeschi. E chi legge fa tutt’altro che chiedere alla pagina di dimostrarsi vera, tanto ne è pervaso, di quella «verità ». A un certo punto Ilana fugge. 
Va sola incontro al mondo che la accoglie con tutta la violenza di cui è capace. Il bianco del bosco lascia il posto al grigio della città , colore che ritroverà  dall’altra parte dell’oceano, nel Nuovo Mondo delle possibilità  infinite che Shmuel, violinista girovago, le farà  prima immaginare e poi conoscere. Un uomo che per salvare lei consegna l’intera sua famiglia allo sterminio incombente, e ne morirà , come tutti gli uomini di questa storia. Una storia fatta dalle donne, in cui gli uomini (fratelli, mariti, amanti) sono necessitati e poi persi, consegnati alla morte e alla sparizione, accidenti imprescindibili per riprodursi, ma più adatti a essere morbosamente rimpianti che fattivamente amati. Perché nel grigio della città  c’è poco posto per la lingua archetipica della foresta, e resta il silenzio affollato della voce interiore. 
Qui la narrazione si sbriciola veloce sulla linea matriarcale. Prima affiora Sashie, la figlia ossessiva e anaffettiva, poi Mara la nipote autistica e violenta, e infine Nomie, la pronipote silente che, unica, sarà  ricettacolo della saggezza orale della bisnonna, raccongliendone il testimone della consapevolezza. Sashie e Mara volevano dimenticare, essere solo presente, cancellare il marchio. In un’America scolorita e cattiva che instilla sogni per vendere incubi e nasconde i mostri sotto il tappeto del capitale, lo spettacolo del grottesco risalta anche più che sul bianco spietato del premoderno. Ci sono quartieri della città  (questa città  innominata e onnipotente) in cui gli spazzini eliminano ogni traccia di vita purché tutto sia pulito. C’è una ragazzina che non esita a bruciare viva la fidanzata del fratello, unica persona che è capace incestuosamente di amare. Infine, con ottocentesca puntualità , il tempo corre verso il suo esito, le Parche tornano a perseguitare Ilana che, dopo aver detto e tramandato e perpetuato, può riassorbirsi nel grumo che l’aveva generata, nel cuore scuro del mistero dell’esistere. Perché la risultante cromatica del bianco e del grigio di queste pagine è proprio il nero di una fiaba totale che, come pochi oggi, ha il coraggio di provare a spiegare, anzi racchiudere il mondo. 
Non ha paura di descrivere il passato per quello che è, intruglio di Storia, storie, memorie e miti, tutti presenti e veri nello stesso istante. Lo stesso per il futuro, che è sogno, progetto, speranza, isteria e ossessione. La vecchia Ilana, alla fine del viaggio (per aggiungere un’ennesima metafora) racchiude in sé la saggezza, nient’altro che l’esperienza autoptica di tutto questo, tardiva e incomunicabile al prossimo se non in brandelli.


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