SE LA GUIDA ALL’ARTE CONTEMPORANEA L’HA SCRITTA BENJAMIN

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C’era una volta l’Aura, l’unicità  e l’incanto. Adesso c’è invece lo Choc, l’urto, l’impressione. “Aura” e “choc” sono le categorie con cui Benjamin legge profeticamente il Novecento, proprio come “ingenuo” e “sentimentale” erano le categorie con cui Schiller anticipava l’Ottocento. Per la cura preziosa di Andrea Pinotti e Antonio Somaini esce da Einaudi il volume Aura e choc, dove si raccolgono i saggi di Walter Benjamin sulla teoria dei media. È un’idea eccellente, che riporta all’attenzione scritti già  noti dell’autore come quello sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità  tecnica, nella prima stesura dattiloscritta del ’35-36; quello sull’autore come produttore del ’34; o su alcuni motivi in Baudelaire del ’39-40, che ai nostri occhi si rinnovano, proprio perché grazie alla nuova cornice e al corredo di testi minori si accentua quella che piuttosto che teoria chiamerò l’ossessione, il pensiero dominante del grande scrittore che è Walter Benjamin.
Sottolineo la parola scrittore perché seguendo le scansioni del volume che si divide in otto sotto-sezioni, in cui si distribuiscono gli interventi su la lingua e la letteratura, la fotografia e il cinema, il teatro e la radio, il sogno e l’hashish, l’architettura e la città , a colpo d’occhio Walter Benjamin potrebbe apparire come un pensatore sistematico, un filosofo che con piglio accademico si arroga il compito di una disanima dello stato dell’arte nell’epoca sua. Mentre non è affatto così. Benjamin insegue, quasi fosse Leopardi, un pensiero dominante. E pensa “poeticamente”. Senza essere poeta, al modo dei poeti, pensa non dialetticamente, ma per metafora. Cerca la verità  che sola la metafora cattura, la quale ha il dono di afferrare il mondo attraverso analogie, “correspondances”. È proprio questo che Adorno non capisce di Benjamin; anzi critica la sua disposizione spontanea allo stupore di fronte alla “rappresentazione della pura fatticità “. Che è invece lì dove si manifesta il carattere autenticamente filologico della ricerca benjaminiana, e cioè il tentativo di fissare l’immagine della storia nei momenti meno appariscenti; sì, anche e perfino nei rifiuti. È la passione di Benjamin per le cose piccole e piccolissime, che non bisogna confondere con il capriccio, perché invece testimonia della sua fede nell’idea di un “fenomeno originario”. Che è proprio quello che bisognerà  portare alla luce per darsi ragione delle forme. 
I due curatori Pinotti e Somaini sanno bene quanto sia difficile catalogare Benjamin. In effetti, tra i suoi vari scritti non ce n’è uno che si possa definire «in qualsiasi senso filosofico o teoretico», scriverà  Hannah Arendt. Tanto che lei stessa – l’amica a cui affida le sue Tesi sulla storia – non può che definirlo per negazione: Benjamin non è uno storico della letteratura, non è un erudito, non è un teologo, non è un filologo. È il più strano marxista che sia esistito. E anche il più indeciso sionista. Un materialista affascinato dall’elemento spirituale. In tutto quello che scrive, è sui generis. Quanto a sé, se mai si fosse concesso il lusso di aspirare a essere qualcosa, avrebbe voluto essere «l’unico vero critico della letteratura tedesca», in quel sostantivo facendo risuonare l’eco almeno del termine che usava Kant parlando di Critica della ragion pura. 
Fatto sta che quest’uomo niente affatto a tempo col tempo, anzi, assolutamente fuori-tempo, intempestivo, inopportuno, in anticipo o in ritardo, si trovò a compiere la revisione dell’apparato percettivo necessaria a ristabilire il valore dell’opera d’arte nell’epoca moderna. Si era in presenza di una crisi, tramontavano idee di creatività , di genialità , di valore eterno, di mistero. La sua fu la profezia della perdita dell’originale e se non colse che il proliferare delle copie garantiva un’iperpresenza dell’opera, intuì per primo il declino della “mano dell’autore”. Lui, quasi fosse un sismografo, intercettò le scosse. E offrì se stesso come cavia al pensiero che elaborò. 
È l’esperienza di lui che registra una trasmissione in una “camera votata alla tecnica” e sbaglia i tempi, a fargli capire che cos’è la radio. È l’incubo del telefono appeso nel corridoio vuoto, a fargli comprendere il freddo della comunicazione. È lui che “si fa” di hashish, a provare l’estraneità  onirica di una conoscenza nuova. In tutti i casi è semplicemente geniale il modo in cui cresce la sua sensibilità  per le segrete parentele e affinità  fra le cose del mondo; commovente la maniera in cui si concede alle nuove medialità  raggiungendo l’illuminazione profana, che servirà  alla sua appassionata volontà  di conoscenza critica del presente. 
La fortuna di Benjamin è postuma. Oggi spira intorno al suo nome la giusta aura. Questa eccellente edizione riconferma il culto di Benjamin. Così come gli studi di Giorgio Agamben, di Fabrizio Desideri, di Massimo Cacciari dimostrano quanto sia stato vitale il loro incontro con il suo pensiero. E dimentico molti altri filosofi, critici, scrittori per i quali Benjamin ha significato un risveglio.
Mi colpisce però ancora di più come la sua presenza aleggi in riflessioni più appartate, più segrete. E faccio esempi concreti. Benjaminiana è la malinconia che spira nella raccolta di saggi che Elisabetta Rasy dedica a certi pittori e certi quadri in cui affiorano alcune Figure della malinconia (Skira). Rasy non cita Benjamin, ma descrive la luce della modernità  in Goya e Turner secondo lo stesso gioco di luci e ombre. E secondo la medesima intonazione osserva l’oggetto caduto al suolo, il malessere della cosa caduta. 
Già  nel titolo à  la Baudelaire, Il lampo e la notte (Sellerio), Roberto Deidier richiama l’esperienza della modernità  nello stesso segno. Benjamin è evocato con grande tatto e leggerezza, a testimonianza che non si può comprendere la modernità  senza il suo aiuto. Perché Benjamin è entrato nel nostro orecchio e nel nostro occhio e si è fatto sguardo e ascolto. Ha educato la nostra attenzione alla visione, alla percezione sensibile e all’esperienza dell’opera d’arte come a una resurrezione povera, ma pur sempre una resurrezione.
Illuminations intitolò non a caso Hannah Arendt la raccolta di scritti di Benjamin che offrì al pubblico americano nel 1968. Nello stesso anno pubblicò il suo libro Men in Dark Times, dove la prefazione scritta per quel volume tramuta nel ritratto qui dedicato a Benjamin. Il saggio conclude nel tono del ringraziamento: per essere un uomo vissuto in tempi bui, quanta luce ci ha regalato! Che libertà , che stupefacente intelligenza! 
La stessa gratitudine mi viene alle labbra e mi chiedo se ancora oggi, nei nostri tempi bui, in cui il nuovo recede e il vecchio avanza, le “illuminazioni” di Benjamin ci aiuteranno a pensare la “nostra” crisi, che riguarda anche, tra gli altri, il problema di ristabilire il valore dell’arte.


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