Trattativa già  iniziata quando fu ucciso? Tutti i pezzi mancanti

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PALERMO — Forse anche Giovanni Falcone è morto per la trattativa tra Stato e mafia. Perché al momento della strage di Capaci i contatti tra boss e rappresentanti delle istituzioni erano già  in corso, come ritengono i pubblici ministeri di Palermo che indagano in questa direzione, e per qualche ragione un attentato terroristico di quella portata ne fu la conseguenza. Oppure l’attentato servì per intavolarla, come ipotizza il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell’indagine ancora aperta sulla morte del magistrato simbolo della lotta alla mafia: «Se Cosa Nostra voleva indurre lo Stato a scendere a patti ed evitare altre stragi, doveva prima farne una per rendere concreta la minaccia». 
In ogni caso, l’attentato di Capaci non fu solo la vendetta di Totò Riina contro il suo nemico storico, decisa da tempo. Almeno da dicembre del 1991, come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè che partecipò alla riunione in cui il capo dei capi comunicò la decisone di procedere alla resa dei conti. C’era anche qualcosa che riguardava altri equilibri, che avevano a che fare con la politica e le «relazioni esterne» di Cosa Nostra. Ecco perché continua la ricerca della verità  che non può fermarsi davanti al alcuna «ragion di Stato», come auspica il presidente del Consiglio. Il suo predecessore, Berlusconi, tre anni fa se la prese con le Procure che perdevano tempo e soldi «ricominciando a guardare fatti del ’92, ’93, ’94. Follia pura». Per Mario Monti, al contrario, «i pezzi mancanti che devono essere cercati fino in fondo». 
Il principale, su Capaci, è il motivo per cui l’omicidio di Giovanni Falcone non fu eseguito a Roma dove il giudice lavorava durante la settimana, come pure era stato programmato, in maniera più «semplice», bensì sulla strada per Palermo, con modalità  terroristiche e quasi eversive. Suscitando una reazione ben più grande di quella che sarebbe seguita a un delitto in una strada della capitale, sia pure così «eccellente». È il rovello del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, per il quale quella decisione resta inspiegabile. Il magistrato lo ripete ad ogni occasione, anche per lui su quell’attentato non s’è scoperto tutto. A cominciare da quella decisione presa da Riina. E ancora ieri ha invocato «la collaborazione di qualcuno che potrebbe sapere delle cose importanti, di qualcuno che ancora non ha detto tutto. Mi riferisco a chiunque, da qualunque parte provenga». 
A Caltanissetta si sta per chiudere uno stralcio dell’indagine che, come spiega il procuratore Lari, cercherà  di riempire i «buchi neri» rimasti aperti sul fronte degli esecutori materiali. L’inchiesta che fu svolta all’epoca e i conseguenti processi, a differenza di quella sulla morte di Paolo Borsellino, non ha subito depistaggi né ha lasciato aperte incognite significative per quanto riguarda le responsabilità  di Cosa Nostra; era rimasto fuori qualche nome, che di qui a poco potrebbe essere individuato. Resta però da svolgere il lavoro sugli eventuali «concorrenti esterni», e in questa prospettiva ritorna l’interrogativo sulla scelta del metodo terroristico. 
All’inizio di marzo del 1992, quando i «picciotti» spediti a Roma per valutare l’opportunità  di colpire Falcone e altri futuri obiettivi a Roma riferirono a Riina che il «lavoro» si poteva fare, il boss ordinò di interrompere i preparativi perché «avevano trovato cose più importanti giù», cioè in Sicilia. Così ha riferito il pentito Vincenzo Sinacori, e da qui parte la ricerca ancora in corso degli inquirenti. Nel tentativo di spiegare la scelta di Riina. 
Una settimana dopo la comunicazione del padrino corleonese, a Palermo fu assassinato Salvo Lima. Il primo anello della «resa dei conti» e dell’attacco allo Stato. E il primo evento che, nella ricostruzione della trattativa che stanno ultimando i magistrati di Palermo, segna l’inizio del ricatto mafioso allo Stato. Da quel momento, ipotizzano gli inquirenti, i contatti tra i boss vennero cercati dagli uomini della politica e delle istituzioni, per impedire che continuasse la «mattanza» che l’omicidio Lima lasciava immaginare. La Cassazione aveva confermato il «teorema Buscetta» e il lavoro di Falcone e Borsellino, che invece a Roma doveva essere smentito. Di qui la reazione. C’era una lista di politici da eliminare dopo Lima, ma il programma si interruppe per cedere il passo alla strage di Capaci. Fu una conseguenza dei contatti con i boss ricercati da chi, magari, temeva per la propria vita? Al momento è solo un’ipotesi. Potrebbe essere uno dei «pezzi mancanti» di cui continua la ricerca.


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