IL DISAGIO DELL’INCIVILTA’ “RISCOPRIAMO LE REGOLE CONTRO I NARCISISTI ASOCIALI”

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 Perché da noi è così difficile rispettare le regole? Potrà  sorprendere, ma la questione non è estranea alla psicoanalisi, perché questo fuggi fuggi generale da ogni responsabilità , nel privato e nel pubblico, dipende anche da una serie di processi mentali consci e soprattutto inconsci, normali e soprattutto perversi. È di questo che tratterà  il congresso della Società  psicoanalitica italiana, intitolato “Realtà  psichica e regole sociali”, in programma da domani a domenica alla Sapienza di Roma.
Ne parla Stefano Bolognini, alla guida della Società  da tre anni e primo presidente italiano dell’Ipa, l’International Psychoanalytical Association, che riunisce i freudiani di tutto il mondo: «Per la prima volta affrontiamo in modo esplicito il rapporto tra l’interno e l’esterno, tra la vita più intima e scabrosa degli individui e l’osservanza o il rifiuto delle condotte richieste da ogni comunità . Di irrituale non c’è solo il tema del congresso, perché gli interventi in programma saranno brevi e puntiamo invece su un dialogo improvvisato tra noi analisti e i personaggi del mondo del lavoro e della cultura, nostri ospiti: da Susanna Camusso a Alessandro Profumo, da Silvana Borutti a Valerio Magrelli… Non mi piaceva l’idea della solita passerella in cui ognuno canta la sua canzone, saluta e se ne va». 
Pensa che “i feticisti di Freud” saranno entusiasti di tanta spregiudicatezza? 
«Non si tratta di essere spregiudicati, ma dell’esigenza di una discussione libera da steccati scolastici sulle ragioni che stanno sgretolando il senso profondo dell’identità  e la nozione di bene comune. Da più parti si avverte il bisogno di sfondare il lessico sociologico e della filosofia politica aprendolo anche al contributo del linguaggio psicoanalitico. E comunque sin dall’inizio è stato proprio Freud a tenere in gran conto la realtà  collettiva: pensi a Il disagio della civiltà , a quell’analisi del prezzo che si pagava in termini di repressione degli istinti a favore della convivenza sociale. Un secolo fa le regole erano molto rigide e il lavoro degli analisti tendeva a liberare gli individui da imperativi interni troppo opprimenti, da un Super-Io castrante». 
Oggi la situazione si è ribaltata?
«Oggi c’è una patologia diffusa della perdita di ogni limite, tanto che qualcuno dovrebbe scrivere “Il disagio dell’inciviltà “. Non è solo una battuta, visto che ormai il lavoro analitico è soprattutto rivolto a ricostituire dei confini, un senso minimo della realtà , a ridurre questa ondata di narcisismo sempre più asociale». 
Saremmo tutti vittime di un desolante smarrimento dei “garanti metapsichici e metasociali”. A cosa allude quest’espressione di René Kaes tanto in voga tra voi analisti?
«Dal nostro punto di vista, gli esseri umani hanno bisogno di contenitori psichici e sociali dentro cui far vivere il rapporto con se stessi e con gli altri. E invece tutto sembra scricchiolare, non abbiamo più appigli solidi, rischiamo di diventare bambini capricciosi senza genitori consistenti in famiglia e senza “equivalenti genitoriali” nelle istituzioni e nelle comunità  sociali. Eccezioni ce ne sono, ma evidentemente non bastano, e al congresso è di questo che parleremo: delle ragioni profonde che rendono intollerabili le incertezze del mutamento, della rarefazione dei contatti reali, dell’assenza fisica che caratterizza il nostro universo relazionale». 
L’opacità , se non lo spegnimento delle coscienze, si lega a una specie di infantilizzazione del vivere comune? 
«Una volta il “fuori” si rifletteva moltissimo sul “dentro”, mentre oggi ci illudiamo di poter adeguare l’ordine esterno ai nostri desideri onnipotenti. In questo clima psichico, che definirei di individualismo asociale, gli Altri così poco tollerati eppure decisivi per la nostra vita determinano un sentimento di disconferma e di frustrazione, con una inevitabile tendenza depressiva». 
Secondo lei, che sta succedendo di fronte a un avvenimento traumatico come la crisi?
«Che la rabbia esplode anche contro di sé. L’ondata di suicidi e le tensioni diffuse hanno ragioni senz’altro complesse, ma si possono “leggere” anche così, come l’inaccettabilità  di riconoscere quello che si è e soprattutto quella che in ogni caso è la condizione umana: sempre terribilmente fragile, incerta, dipendente… Se fino a qualche tempo fa si poteva dire spavaldamente “Sono fatto così”, anche con la pretesa dell’accettazione del superamento di ogni limite etico, oggi la situazione è molto cambiata e ci si chiede “Chi sono io, visto che non so bene cosa sono e soprattutto cosa sarò domani?”. La nostra è un’epoca di perturbazioni rapide dello status economico e sociale e questo implica un’insicurezza di fondo, una dolorosa indefinitezza, un sentimento di colpa e di vergogna che può anche diventare autoaggressivo». 
È il burlesque di questi anni che ha irriso le regole, cancellando parole come merito, trasparenza, onestà . E anche oggi è diffusa la percezione che ogni potere venga esercitato in modo arbitrario, a favore di alcuni e a danno di altri. Come ristabilire un sentimento di fiducia e di coesione sociale?
«Sono indispensabili modelli di riferimento basati su convinzioni etiche, sul rigore del lavoro, sulla sobrietà  dei comportamenti. Non vedo in che altro modo si possa rispondere ai bisogni emotivi di una collettività  disincantata e costretta ad affrontare difficoltà  e disillusioni a volte atroci. Nello stesso tempo non è però solo l’efficienza che andrebbe così tanto esaltata».
Cosa vuole dire?
«Voglio dire che il termine “regola” etimologicamente ha un’origine autoritaria. Ma non è la necessità  di una seria struttura organizzativa a confliggere con i principi democratici, piuttosto è l’eccesso nella valorizzazione della “effectiveness”, della prestazione efficace, è l’enfasi sull’autoaffermazione che tende a distruggere la creatività  degli altri. Il rispetto delle regole non dovrebbe ingabbiare o mortificare la capacità  inventiva. In termini analitici, a entrare in gioco sono sentimenti poco riconosciuti come l’invidia e la gelosia, che riguardano tutti. Ma qui la partita con l’inconscio risulta spesso perdente, perché è davvero molto difficile – anche per noi analisti – convertire l’invidia in ammirazione e la gelosia in tolleranza».


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