Sulle barricate di Beirut il fronte del contagio siriano

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I segni della battaglia sono lì. Carcasse di auto bruciate lungo il marciapiede. Muri crivellati di colpi grandi come noci. Vetrine sfondate. E questa folla di curiosi che ormai ha assorbito ogni dettaglio eppure resta immobile, come in attesa di un seguito. Bisogna venire a Tarik Jdeideh, il quartiere sunnita di Beirut, dove nella notte tra domenica e lunedì s’è combattuto ferocemente (almeno due morti e una ventina di feriti) per capire come il Libano, fino a ieri un'”isola felice” nel turbinio della rivolta araba, rischi adesso di venire risucchiato nell’abisso scavato dalla guerra civile siriana.
È a causa di quello che succede in Siria che i libanesi stanno riscoprendo la paura. Perché da alcuni giorni gli avvenimenti siriani sembrano riflettersi quasi automaticamente nello specchio libanese. Là  il colpo, qui la risposta. Ieri 13 sciiti libanesi di ritorno attraverso la Siria da un pellegrinaggio in Iraq sono stati sequestrati vicino ad Aleppo dai ribelli del Libero esercito siriano. I quali vorrebbero scambiare gli ostaggi con militanti dell’opposizione siriana detenuti in Libano. Subito nei quartieri sciiti di Beirut è scattata la protesta. Strade bloccate, barricate date alle fiamme. È dovuto intervenire il leader di Hezbollah, Nasrallah, per calmare le acque. Sta di fatto che, neanche il tempo di estinguere le fiamme dei sunniti, ecco alzarsi sulle strade di Beirut i roghi degli sciiti.
Le strade di Tarik Jdeideh, caotico fotogramma di una Beirut sovrappopolata, sono tappezzate di ritratti del giovane Hariri, Saad, l’ex premier che ha raccolto l’eredità  paterna, ma da un anno e mezzo se ne sta a Parigi, ovviamente per motivi di sicurezza. Nella toponomastica delle appartenenze settarie, Tarik Jdeideh rappresenta la roccaforte dei sunniti, come Dahyeh è la “repubblica” sciita e Ashrafyeh la trincea cristiana.
Eppure a combattere la battaglia di Tarik Jdeideh sono stati sunniti contro altri sunniti. Perché la crisi siriana, che vede l’un contro l’altra armata la maggioranza sunnita del Paese contro la minoranza alawita, setta eterodossa sciita cui appartiene la famiglia del presidente Assad, è capace di dividere i grandi raggruppamenti confessionali. Basta trovare gli uomini adatti, disposti a combattere una guerra altrui, e il precario equilibrio inter religioso libanese è pronto a saltare.
Shaker al Birjawi è uno di questi uomini. La sede del suo partito, l’Arab Movement Party, filo siriano, proprio di fronte all’Arab University, è un antro buio divorato dalle fiamme. Ad innescare gli scontri pare siano stati alcuni giovani seguaci di Hariri che hanno cominciato a bruciare copertoni per protestare contro l’uccisione, ad Akkar, una regione del Nord non lontana da Tripoli, di un religioso, Sheik Ahmed Abdul Wahed e del suo braccio destro, ad un posto di blocco dell’esercito. Abdul Wahed stava andando ad una manifestazione a sostegno dell’opposizione siriana. La dinamica dei fatti resta confusa, ma nel frattempo tre ufficiali e 19 soldati sono stati arrestati e inquisiti dai vertici militari.
Ma oramai l’effetto domino è partito. Shaker al Birjawi è una sorta di cavallo di Troia piantato nel bel mezzo della cittadella sunnita. Dopo aver esordito, negli anni 70, come alleato dell’Olp di Arafat, nell’arco di una vita s’è fatto passare diverse volte sia come alleato che come nemico della Siria. Da ultimo è tornato a bussare alle porte di Damasco, anzi, prima alle porte dei potenti Hezbollah, il Partito di Dio grande alleato della Siria, e poi a quelle di Damasco. Sta di fatto che a salvarlo, lunedì notte dai seguaci di Hariri, sarebbero stati proprio gli Hezbollah accorsi dalla vicina Dahyeh. Lui, Al Birjawi ha negato, rivendicando il suo orgoglio sunnita: «Non permetterei mai agli sciiti di entrare in questo quartiere».
«Guardi qua cosa c’è – dice Amal, guidandomi nel labirinto dai vetri oscurati del suo appartamento proprio di fronte agli uffici di al Birjawi – le mie figlie, Sara e Nour, di 3 e 6 anni, dormivano qua fino a pochi minuti prima». I proiettili sparati dalla strada hanno bucato le serranda e attraversato la stanza, disperdendosi tra l’armadio, i lettini dalle lenzuola rosa, e una vetrata che dà  nel tinello. «Appena abbiamo sentito le prime urla ci siamo rinchiusi tutti nel bagno fino alle sei del mattino». Al terzo piano, una scena analoga. Sono tre anziani, stavolta, a scampare per un pelo alle raffiche. Sahab Bitar non va tanto per il sottile: «È la storia di sempre: è la guerra civile tra noi e gli Hezbollah. Con la differenza che noi non andiamo da loro a Dahyeh. Loro, invece, vengono da noi a dettare legge. La Siria gioca con tutte e due le parti». 
Arriva un gruppo di giovani di Hariri con le bandiere azzurre del movimento e quelle libanesi. Cercano di entrare negli uffici di al Birjawi per esporre i vessilli della vittoria dalle finestre annerite. C’è un momento di tensione. Uno dei militanti tira fuori il coltello. Accorrono i soldati. Baraonda. I giovani anti siriani ripiegano. Ma tornano poco dopo con una scala per scalare la facciata dall’esterno e compiere la loro “missione”. I soldati restano a guardare senza intervenire.


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