Fratellanza razzista

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Cannes settimo giorno, aspettando in gara il «misterioso» Leos Carax , Holy Motors , scopriamo Journal de France (Séance spéciale) di Raymond Depardon e Claudine Nougaret, sua compagna e complice di cinema, a lei si deve il suono di tutti i suoi film negli ultimi venticinque anni, da quando si sono incontrati sul set del Raggio verde di Eric Rohmer . Un racconto che è quasi un’ «autofinizione» di segno duplice, in cui il lavoro di Depardon, fotografo, reporter non emebedded , cineasta, si intreccia alla storia francese degli ultimi decenni. Mentre Depardon è in viaggio da solo per la Francia, Nougarez apre i suoi archivi, le prime immagini girate nei paesi in guerra, in Africa tra i mercenari europei che addestrano l’esercito per reprimere i movimenti di indipendenza. Praga, dove è testimone della resistenza ceca all’invasione sovietica, il regime lo scopre, lo arresta, lo espelle. Il rapimento in Ciad di Francoise Claustre, etnologa, liberata dopo tre anni, Depardon riesce a incontrarla, il suo dolore e l’indifferenza del governo francese che l’ha abbandonata vanno in onda in prima serata, Depardon viene arrestato e processato. Poco prima aveva girato un film sulla campagna elettorale di Giscard d’Estaing censurato fino al 2002. E qualche anno dopo rimane a lungo in Italia documentando la condizione dei malati nei manicomi, Basaglia diceva di filmare che nessuno ci avrebbe creduto … Nel frattempo il pretesto narrativo del viaggio in Francia, diviene anch’esso una messinscena del suo lavoro: Depardon fotografa paesaggi che scompaiono, paesini e botteghe, gli appunti sul «diario» (journal) rivelano progressivamente la scoperta di un metodo in cui, come dicono i due registi, «niente è anodino, tutto è politico». E la natura politica in questo confronto con la realtà , nasce dall’osservazione, dallo sguardo diretto, senza trucchi, da una reciproca fiducia, l’«istante decisivo» che è in ogni piano. Una lezione imperdibile. È presto per dire cosa ci porteremo da Cannes 65 per il futuro, quali scoperte (ma non lo è anche la sorpresa che arriva da un autore di cui si è già  molto visto, come la maggior parte dei registi selezionati quest’anno sulla Croisette? ). Certo è che Rachid Djaidani potrebbe essere una di queste. Trentotto anni, padre algerino, madre sudanese, cresciuto a Carreres-sousPoissy, in una famiglia di undici tra fratelli e sorelle, pugile campione dell’Ile de France, scopre il cinema lavorando sul set di La Haine . Scrive una sceneggiatura, che diventa un romanzo, Boumkoeur, è attore per Peter Brook in Hamlet , inizia a lavorare a questo film, autoprodotto. Nove anni tra riprese e montaggio, con un’unica idea in testa: rimanere libero. Rengaine – presentato alla Quinzaine des Réalisateurs – è un film libero, soprattutto nelle modalità  con cui si avvicina al suo soggetto, la vita nelle banlieue oggi e i rapporti tra le diverse comunità  , narrati senza cedere al compromesso della rappresentazione (auto) vittimista. Parigi, Sabrina (Sabrina Hamida) è una ragazza di origine algerina che esce da un anno con Dorcy (Stephane Soo Mongo), un ragazzo africano che sogna di diventare attore. Dorcy le chiede di sposarsi e lì cominciano i guai. Slimane il fratello maggiore di Sabrina convince gli altri «fratelli» – sono quaranta – a fare muro. È uno scandalo, Dorcy è «negro» e cattolico. Ma anche nella comunità  africana le cose non vanno meglio: la madre di Dorcy lo minaccia, non vuole una «donna bianca» deve sposarsi una ragazza africana. «Voglio nipoti neri» grida la donna picchiando sulla testa del figlio. Slimane aizza i ragazzi, ma anche lui nasconde qualcosa, la sua ragazza, una musicista, è ebrea… La tensione sale, mentre si sussegue l’intera gamma degli stereotipi in cui le diverse comunità  rinchiudono la propria rappresentazione: un razzismo reciproco, che mischia tradizione, religione, autorità  maschile, il lessico del rispetto che vieta i comportamenti «devianti», l’indipendenza delle donne o l’omosessualità  – il fratello di Slimane è gay e perciò è stato bandito dalla comunità . Perciò argomenti come il matrimonio, scatenano l’intolleranza più insopportabile, anche tra coloro che non l’avevano mai manifestata. Ma Rengaine non è il solito film sulle periferie francesi di gang e rapper. Rachid Djaidani rompe le convenzioni, l’immagine idilliaca di una fratellanza, che come altre sono proiezioni tutte occidentali. Il razzismo è ovunque, segna ogni discorso di questo universo, e lui non lascia spazio a nessuna concessione. La scommessa è lavorare questo materiale anche cinematograficamente, cercare un’immagine che vi corrisponda, che non si lasci ingabbiare dalle convenzioni della visione. Djaidani sta incollato ai personaggi, primissimi piani di occhi e di respiro, scava nei visi e ne cerca una verità , forse diversa nel profondo dalle parole. E al tono serio mescola un umorismo divertito, alterna i casting di Dorcy, e il set di un film indipendente (una dello cose più divertenti del film), liberando prima di tutto il cinema. Il suo è senz’altro irriverente, un uppercut agli schematismi del mondo.


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