L’Italia del coraggio deve battere l’Italia della paura
Pur con la cautela dovuta alla delicatezza delle indagini e al riserbo degli investigatori, l’orribile attentato di Brindisi impone alcune considerazioni.
Prima considerazione: chiunque sia il responsabile di un atto criminale così efferato, organizzazione terroristica o mafiosa, ovvero assassino solitario, l’obiettivo era uno, semplice e terribile. Seminare il terrore nel Paese, veicolare una nuova, sottile, paura sociale da aggiungere alle altre paure che si vanno diffondendo. Colpire al cuore il senso più intimo di sicurezza di ogni cittadino, che ha diritto di essere sereno quando manda i propri figli a scuola. Colpendo un’innocente studentessa si è voluto colpire la gioventù del Paese. Prendendo di mira una delle scuole italiane, si è voluto incrinare ancora la sicurezza collettiva di una comunità nazionale. Ecco perché, chiunque sia stato, non possiamo sentirci «sollevati» anche se dovesse essere smentita la «pista mafiosa». Perché l’atto in sé, per la scelta dell’obiettivo, dei tempi e delle modalità esecutive, fa pensare trattarsi, certamente e comunque, di un atto terroristico con finalità destabilizzanti del senso di sicurezza dei cittadini. Qualcuno sta soffiando sul fuoco.
Secondo elemento: il fuoco. Il clima che si respira nel Paese deve preoccuparci. Senza voler alimentare eccessivi allarmismi che rischiano di fare il gioco dei professionisti del terrore, non va sottovalutato il diffuso senso di insicurezza che si percepisce, a Nord come a Sud. Prevale nel cittadino medio un costante sentimento di precarietà , che è innanzitutto economica ed esistenziale, di incertezza per il proprio futuro. Se a questo dovesse aggiungersi un crescente senso di insicurezza pubblica, il clima di instabilità nel Paese rischia di montare in modo allarmante. Il risorgere del terrorismo politico, le nuove forme di degenerazione violenta della contestazione sociale, la montante intolleranza ostile al confronto democratico sono fattori potenziali che trovano il loro habitat naturale nella situazione di incertezza del sistema, di cui sono ingredienti: la crisi economico-finanziaria nazionale ed europea, l’instabilità politico-istituzionale, la disaffezione dei cittadini verso le istituzioni, l’approssimarsi di importanti scadenze elettorali e la conseguente fibrillazione nel mondo politico-istituzionale. Questi sono i combustibili che giacciono sul fondo del Paese. L’attentato di Brindisi, insieme agli altri fatti delittuosi degli ultimi mesi, apparentemente del tutto scollegati fra loro, sembrano dimostrare che sono diversi gli attori ben consapevoli di questo contesto «esplosivo», e pochi sono gli artificieri che vogliono disinnescare e i pompieri che vogliono spegnere il fuoco. Purtroppo, molti sono gli attori interessati ad appiccare l’incendio. Ecco perché bisogna tenere la guardia molto alta. Perché perfino il gesto stragista di un fanatico può essere usato da altre menti più lucide, ma non meno criminali. Terzo elemento: il Paese reale. C’è l’Italia che ha paura, una paura sociale ed economica. La paura di perdere il posto del lavoro, la paura dell’incertezza economica, paura nel mondo del lavoro e nel mondo dell’impresa. È la paura della precarietà . Di fronte alla quale i fomentatori della paura sono in agguato. È qui che covano le strategie collettive ed individuali, patologiche e criminali, per fomentare la paura, anche perché no? a colpi di bombe. L’Italia non è nuova a scenari del genere. Scenari apocalittici? Forse, ma è bene stare attenti. Coesi e vigili. Ma anche fiduciosi, perché c’è anche l’Italia del coraggio. L’Italia dei giovani che hanno manifestato ancora contro la mafia e la violenza. Pronti a scendere in piazza nel segno della solidarietà e per la legalità . Giovani forti ed innocenti come la povera Melissa, che diventerà il simbolo di questa Italia. La società perbene pronta a resistere e ad impegnarsi giorno per giorno per un futuro più libero.
Conclusioni: che fare? Perché la paura non diventi panico, perché l’Italia del coraggio prevalga sull’Italia della paura e dei fomentatori del terrore, occorre un rinnovato impegno delle istituzioni per dare fiducia e speranza. Dimostrando fermezza contro ogni forma di sistema criminale, quello della mafia e del terrore, ma anche quello della corruzione. Per conquistare sempre maggiore fiducia nelle istituzioni, per dare ancora più coraggio all’Italia del coraggio. Per preservare la democrazia.
Corriere 21.5.12
Nella mente folle dell’assassino che uccide innocenti
Colpisce i figli per renderci tutti bersagli
di Donato Carrisi
Non è stato un semplice attentato. Questa, invece, è una guerra. Un esercito di un solo soldato contro il mondo intero. E non è cominciata adesso, bensì tanto tempo fa. Ma prima era solo nella testa dell’uomo che ha schiacciato il pulsante del telecomando che ha fatto esplodere la bomba. Una guerra personale, alimentata con l’odio di anni, generata dalle viscere del risentimento. Ma combattuta anche per conto di chi, come lui, ha dovuto subire per tutta la vita. Per chi non aveva voce, né rispetto. Perché lui, nel suo delirio, ne è sicuro: questi uomini invisibili e vessati ora sono dalla sua parte, anche se non possono dirlo, perché «gli altri» non capirebbero, perché quelli sanno solo giudicare e sputare sentenze. Ma ci ha pensato lui a punirli, perché nella sua testa gli altri ora sono il nemico. È convinto che la sua guerra sia eroica, per questo non risparmia nessuno. Una ragazzina morta è solo una pedina sacrificabile, un giusto tributo di carne e sangue da versare alla causa. Non ci sono innocenti in questa guerra. Ma se la sono voluta loro, lui ha solo reagito. E noi non possiamo permetterlo. Nella sua follia, la missione è andare contro chi l’ha respinto, escluso, maltrattato o, semplicemente, ignorato per tanto, troppo tempo. Adesso, però, la sua guerra è in mondovisione, e tutti possono vederla. E nel momento in cui tutti lo cercano, paradossalmente, lui non si sente più invisibile. Sono qui, sembra dirci. E sono pronto, venitemi a prendere.
Ha costruito la sua motivazione giorno per giorno, assemblandola pezzo per pezzo, in solitudine, come ha fatto con la bomba, costruita forse in cantina o in garage, mentre il mondo là fuori non sospettava nulla. Solo che la carica esplosiva che lui si porta dentro è di gran lunga più micidiale di tre bombole di gas. Ce lo dice il fatto che non bastava un ordigno a caso. No, bisognava colpire dove avrebbe fatto più male. Dritto al cuore. Giovani vittime, in modo che tutti si sentissero padri e madri, perché non esiste dolore più deflagrante della perdita di un figlio. Ha scelto di piazzarla davanti a una scuola, una con un nome simbolico, dedicata a chi il mondo degli altri celebra come eroe solo dopo che è morto. Lui ha voluto smascherare la nostra ipocrisia, e farci sentire vulnerabili. Perché l’onda d’urto della bomba non si è esaurita in un normale sabato mattina di scuola, ma continua, si propaga muta sotto forma di paura che rompe gli schermi della quotidianità , invade le case, s’insinua nelle famiglie. E ci fa sentire tutti bersagli.
Era questo lo scopo, fin dall’inizio. Per questo il soldato solitario ora ride. Di noi che abbiamo fatto, frettolosamente, di quella bomba e di quella povera vittima un simbolo. Ma questa non è la guerra dell’antimafia. Questa è la sua guerra. Ride perché, così, abbiamo fatto fare bella figura alla criminalità organizzata, alle mafie coi loro codici d’onore che, in realtà , sono solo codici di business secondo i quali ammazzare una ragazzina davanti a una scuola non è affatto immorale, ma fa semplicemente male agli affari.
Ride di chi «sentiva nell’aria» l’odore di questa bomba prima ancora che esplodesse: comici che non fanno ridere nessuno, tranne lui. Ride di noi, infinitamente deboli e impauriti. E soli. Perché davanti all’ombra il nemico può essere chiunque e il pericolo può nascondersi ovunque. Ogni luogo pubblico diventa un potenziale «target». Chi pensa che chi commette un simile atto voglia poi svanire nel nulla, si sbaglia in partenza. E adesso che abbiamo scoperto che l’uomo senza volto non è classificabile come mafioso o eversivo, e non possiamo sentirci rassicurati nell’inquadrarlo in una categoria conosciuta che, in passato, abbiamo già sconfitto, dobbiamo fare i conti con la realtà più tremenda. Lui è uno di noi. Il soldato ora ci guarda coi nostri stessi occhi. Ci guarda e aspetta. Ci guarda e ci sfida. La sua guerra dura da un pezzo. La nostra è appena iniziata.
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