Ritorno a Srebrenica
Srebrenica è un paesino, lo è sempre stata, tranne che in quel 1995, quando vi si erano ammucchiati a decine di migliaia gli sfollati bosniaco-musulmani. Sarebbe il paesino più triste del mondo, se non vi si arrivasse dopo aver già attraversato al contrario il percorso delle stragi di quei giorni di luglio: Kravica e il magazzino del mattatoio, e Potocari e i capannoni dismessi delle truppe olandesi in cui cercarono invano rifugio i disperati, e l’immenso cimitero memoriale. L’11 luglio di ogni anno arrivano decine di migliaia di pellegrini, famigliari che si raccolgono attorno alle tombe, persone che vengono a capire e ricordare – gli italiani sono i più numerosi. Oggi è un giorno qualunque, e Srebrenica è un paesino scadente, di case brutte, le diroccate e le nuove. In alto c’è la chiesa ortodossa ricostruita. Più giù, dalla moschea ricostruita al margine di una piazza sconclusionata, escono gruppi di donne anziane e qualche uomo che hanno appena partecipato a una cerimonia funebre.
Facciamo un giro, andiamo a cercare il locale in cui le donne vendono ricami e maglie. Le troviamo sedute a chiacchierare su un marciapiede, davanti a un edificio costruito, come una targa avverte, proprio dal governo olandese – ma in affitto. Ci sediamo con loro sui gradini, portano dei cuscini, sono cordiali e confidenziali, fa caldo, preparano il caffè, «Quando c’è il sole qui, è il posto più bello del mondo», dice una. Si chiamano Dzelahira Halilovic, Gada Ahmetovic, Zineta Bajramovic, Naza Ibisevic, intorno giocano bambini e cuccioletti randagi appena partoriti. Sono tornate a stare qui nel 2009, tranne Naza, che è giovane, ha 35 anni, ed è tornata nel 2006 dopo aver vissuto per cinque anni in Belgio. Le loro storie sono simili, varia il numero dei morti: «tutta la famiglia», «padre e fratello», «marito e figli», «tre figli di un fratello»à¯¿½ Raccontano con familiarità e però a volte piangono, come se fosse successo ieri. Furono separate da uomini e ragazzi, come tutte, senza il tempo di abbracciarli, di dirsi qualcosa. Caricate sui camion e portate a Kladanj, da lì avventurosamente arrivate a Tuzla, mentre i loro uomini venivano trucidati. Raccontano com’era prospera Srebrenica, le sue miniere (srebro è l’argento) e le sue fabbriche, e che oggi non c’è lavoro per nessuno, e anche per questo chi è andato a Vogosca, a Sarajevo, o a Tuzla, o più lontano, non vuole tornare. Dicono di non avere voglia di vendette: «Loro sanno quello che hanno fatto». Raccontano cose raccapriccianti, il bambino che piange strappato dalle braccia della madre e sfracellato – «Ora non piange più»; il cadavere portato dalla Drina, col naso le orecchie e le dita mozzate; il ragazzo con un ferro passato da un orecchio all’altro. Certo che incontrano ogni giorno qualcuno di quelli di allora. «Uno guida il nostro autobus» – allora guidava quei camion.
Lo scandalo estremo è che Srebrenica sia stata assegnata, nella ripartizione di Dayton, alla Republika Srpska, cioè alla parte che i rese responsabile del crimine – il massacro di oltre 8mila uomini e ragazzi inermi – condannato dal tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia come genocidio, il crimine più orrendo dopo il ௿½45 in Europa. La decenza avrebbe voluto che si trovasse per Srebrenica uno statuto peculiare: non lo si è fatto. Cinque anni fa la maggioranza del consiglio comunale di Srebrenica votò la richiesta di indipendenza dalla Republika Srpska. Oggi, al contrario, i serbobosniaci cercano di correggere la legge che riconosce il diritto di voto amministrativo ai cittadini di Srebrenica sfollati in altri luoghi della Bosnia, e grazie al cui voto il comune ha ancora un sindaco “musulmano”.
Ero a Sarajevo quando arrivarono le prime orribili notizie dei fuggiaschi da Srebrenica, difficili da credere, che dicevano delle migliaia di deportati e trucidati. Non ero mai venuto qui. Avevo visto innumerevoli facce di donne di Srebrenica nei filmati, ne avevo ascoltato le parole, e però queste donne semplici, sedute in strada come in qualunque paese del meridione d’Europa, così capaci di un’affabilità e di un’intimità improvvisa, smussano la soggezione del memoriale e del casermone, musei della ferocia e della viltà , di Potocari. Queste donne, adesso, sono più forti di tutto. Esclusero per lo più le donne, i boia. Cavallereschi. Prima però le stuprarono a volontà . Anche escludere le donne dallo sterminio può essere un’impresa maschilista.
A nord di Sarajevo, poco oltre la Biblioteca moresca, la Miljacka entra in città facendo un’ansa suggestiva, meta, quando non si spara e la stagione è bella, di anziani e innamorati. Da lì parte la strada che presto si biforca portando a sud-est, in un quarto d’ora, a Pale, già arrogante capitale degli assedianti, e a nord-est, alla distanza di un paio d’ore, alla Drina. I cartelli avvertono che si è passati nella Republika Srpska: non è una vera frontiera, benché abbia una gran voglia di esserlo. È il trapasso da un'”entità ” all’altra, secondo la grottesca nomenclatura della Bosnia-Herzegovina di Dayton, paese fittizio diviso in tre, tre di tutto. È un percorso pieno di luce, in un maggio che anticipa l’estate. La strada si arrampica e ridiscende, attraversa i monti e le vallate di Romanija e i boschi floridi di pini abeti betulle e faggi – boschi e acqua sono le ricchezze future del paese. Il paesaggio bucolico è di una bellezza struggente, se solo si dimentichi che cosa è successo poco fa. I segni del resto non sono più tanti. Rovine di case crivellate e bruciate, sì, come dappertutto in Bosnia, e cartelli che avvisano che i boschi sono ancora minati. Dopo Bratunac, si arriva a Kravica, poi a Potocari, poi a Srebrenica. Si fa nella direzione opposta la strada che nel luglio del 1995 gli abitanti e i rifugiati di Srebrenica fecero a piedi nel tentativo disperato di fuggire al massacro, o nei camion in cui erano stati ammassati.
A Kravica, nemmeno 15 km da Srebrenica, i serbo-bosniachi hanno eretto un monumento funerario con al centro una colossale croce, e la rivendicazione dei loro morti, più di tremila. Violenze e massacri hanno colpito anche i serbi, ma la cifra è abusiva, messa assieme per cercare di emulare il conto con le vittime bosgnacche del luglio 1995. Lì a Kravica, poco distante, sul lato opposto della strada, c’è il deposito in cui furono ammassati e trucidati, a raffiche di mitraglia e bombe a mano, più di mille dei deportati da Srebrenica. Niente lo ricorda. Sul davanti del rudere, sono state piantate delle siepi. «È per nasconderlo alla vista», dice il mio accompagnatore.
A Potocari, l’immenso cimitero monumentale raccoglie migliaia di vittime identificate grazie alle indagini sul dna. Ci sono sempre becchini al lavoro. Le tombe provvisorie sono segnate da tavole di legno verde, quelle definitive da stele di marmo bianche. Di fronte, i grandi tetri capannoni che erano stati di una fabbrica di accumulatori, furono poi la sede della guarnigione olandese delle Nazioni Unite – quasi 500 militari, incaricati della sicurezza della zona dichiarata protetta – alla quale all’arrivo delle milizie di Mladic accorsero terrorizzati gli sfollati e gli abitanti di Srebrenica, per esserne respinti dai “protettori”, che arrivarono a collaborare alla selezione degli uomini da donne bambini e vecchi. Quegli olandesi, dal loro colonnello all’ultimo dei soldati, sapevano che cosa sarebbe avvenuto. Lo sapevano anche i loro superiori in Bosnia e fuori, fino al Palazzo delle Nazioni Unite. La codardia di tutti è un’infamia incancellabile sulle pretese del nostro tempo. Anche scrivere questo è troppo facile. Chiunque venga a Potocari e cammini dentro questo capannone stillante umidità e buio, se ha cuore dovrà immaginarsi nella folla disperata che cerca scampo per sé e per i propri cari. Ma dovrà anche porsi l’interrogativo più difficile: che cosa avrei fatto io, se fossi stato un soldato olandese col casco blu, qui, quel giorno?
È bene venire fin qui. È più facile, dal divano di casa propria, guardando un filmato, evitare queste domande. Qui, nel capannone in cui si leggono ancora le scritte sventate degli olandesi, si guarda un filmato, e i passi e le urla sembrano venire di nuovo dalla strada, dai cancelli, dalla folla che preme e dai militari che la respingono. Ne avevo letto e scritto tante volte. Mi accorgo che non ne avevo capito abbastanza. Anche quella cifra, a leggerla da lontano, più di ottomila sterminati, è anestetizzata.
Ci guida al cimitero un giovane intelligente che si chiama Hasan, ci mostra nell’elenco interminabile di nomi scolpiti nella pietra quello di suo padre e suo fratello. Gli chiedo se è vero che un soldato olandese di quelli di allora è venuto ad abitare qui con la famiglia. Macché, dice, è una leggenda, e nemmeno tanto disinteressata. C’è uno che è venuto a volte a visitare Srebrenica, molto intervistato, e a spiegare che loro avevano fatto il possibile. Del resto, dopo che un governo olandese si era dimesso per il disonore, un altro governo provvide a decorare tutti i membri della missione, non al valore militare, chiarì, ma per risarcirli dello stress subito per le critiche.
Al ritorno, ci fermiamo di nuovo davanti al memoriale per fotografare una mucca che è venuta a brucargli davanti. L’ho detto, il paesaggio è bucolico, e il tramonto lo addolcisce ancora. Ma ciascuno di questi villaggi ha conosciuto gli scambi di popolazione forzati della pulizia etnica, e la pace – cioè l’assenza della guerra – riapre qualche vertenza sulle case. Liti di vicinato, si direbbero, se l’odio di vicinato non avesse avuto tanta parte nella carneficina ex-jugoslava. A Konjevic Polje, periferia di Bratunac, c’è una chiesa ortodossa di costruzione recente: solo che l’hanno costruita nel giardino di Fata Orlovic, una anziana signora musulmana scampata al genocidio. Nel 2000 volle tornare a casa sua e si trovò davanti la chiesa. Da allora pretende dalle autorità che venga sgomberata, e rifiuta di vendere, benché sia bersaglio di insulti e aggressioni fisiche. Nel 2007 un tribunale le diede ragione. Io ci passo davanti nel maggio 2012, e la chiesa è lì. Ma è lì anche la vecchia Fata Orlovic, e fa i nomi dei sicari di Srebrenica che le abitano accanto, e non cede. Altre vecchie donne sono all’Aja, dove finalmente il processo contro Ratko Mladic, il gran generale che davanti alle telecamere regalò un cioccolatino a un bambino spaventato, è cominciato. Anche se ieri, per un’irregolarità , è stata decisa una sospensione.
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