Se Il canone emotivo è scritto nei romanzi

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Quella domanda “quanto si impara dalla letteratura?” la risposta che darei senza esitazione è: “dipende dall’età “. Da giovani moltissimo, con il passare del tempo molto meno. Il motivo si spiega con una seconda domanda: “che cosa si impara dalla letteratura?”, la cui risposta sarebbe: essenzialmente, emozioni. Perciò c’è una prima parte della nostra vita in cui la letteratura agisce come educazione sentimentale e preparazione a situazioni future, e poi una seconda, più pura e disinteressata, in cui agisce come rievocazione e confronto tra le nostre emozioni e quelle che vengono narrate nel romanzo. 
È avendo presenti queste coordinate che la filosofa del linguaggio Carola Barbero ha scritto La biblioteca delle emozioni (Ponte alle Grazie), con un procedimento molto semplice: si prendono undici romanzi, rigorosamente contemporanei (il più antico è Zazie nel metrò, 1959) probabilmente per evitare i timori reverenziali che provocano i classici e il ricorso alla categoria un po’ iettatoria di Grande Arte. Perché il punto non è trovare i vertici del Canone Occidentale, ma piuttosto quei libri che leggiamo non per darci delle arie, ma perché ci suscitino dei sentimenti e soprattutto ce ne facciano fuggire uno insopportabile, la Noia. Così le opere sono classificate e analizzate in base alla emozione fondamentale che trasmettono: Tristezza (Mazzantini, Non ti muovere), Stupore (Nothomb, Stupore e tremori), Allegria (Pennac, La fata carabina), Paura (King, Misery), Speranza (Queneau, Zazie nel metrò), Potere (Sà¼skind, Il profumo), Amore (Grogan, Io e Marley), Rimorso (Giordano, La solitudine dei numeri primi), Rispetto (Murgia, Accabadora), Attesa (Veronesi, Caos calmo), Erotismo (Grandes, Le età  di Lulù).
Aprire un romanzo è dunque come aprire la porta di un laboratorio in cui si fabbricano artificialmente emozioni, proprio come in altri laboratori si simula l’assenza di rumore o di gravità . Il fatto di trovarsi in un laboratorio sottolinea due presupposti essenziali di cui si è molto sentita la mancanza nei tempi, non lontani, in cui si sosteneva che tra finzione e realtà  non ci sarebbe alcuna differenza. Primo, che per godere davvero dei benefici del laboratorio non si soffra della stessa sindrome di cui erano afflitti Emma Bovary, Don Chisciotte e i teorici della realtà  come finzione, e cioè che l’attrazione sentimentale del romanzo poggia proprio sulla distinzione tra vero e fittizio. Secondo, che proprio per questo il laboratorio può essere rilassante e tonificante, perché nei romanzi, diversamente che nella vita, possiamo sapere che cosa ci aspetta e a cosa andiamo incontro. La premessa teorica di tutta l’impresa non è che non c’è differenza tra finzione e realtà , ma semmai che le emozioni sono un elemento imprescindibile per la nostra comprensione e il nostro stare nel mondo reale. 
Abbiamo così un approccio alla letteratura che è insieme il più inerme (non si parla di cultura, di teorie, di registri stilistici, ma proprio e solo dei sentimenti) e il più sofisticato. Perché sotto l’apparente semplicità  ci sono tutti i classici interrogativi della filosofia intorno alle emozioni: Che rapporto c’è tra emozioni e ragione? Perché cerchiamo nell’arte sentimenti negativi che fuggiamo nella vita? (e qui Aristotele, Hume e Freud hanno molte e convincenti risposte). Perché ci piace sentire o leggere delle storie non vere, che cosa ci aspettiamo? (e qui le risposte vengono da Leibniz e dai mondi possibili).
Ma, al di là  della filosofia delle emozioni, di cui Carola Barbero è una esperta accademica, come ha dimostrato (in particolare in Chi ha paura di Mr. Hyde?, il Nuovo Melangolo), questo laboratorio sembra suggerire anche un buon uso pedagogico della letteratura: leggere i romanzi in classe, o far fare dei temi, in cui al centro ci sia proprio la descrizione del sentimento. È vero che Nabokov diceva che questa è la più ingenua delle maniere a cui ci si rapporta a un romanzo. Ma non risulta da nessuna parte che abbia detto che sia sbagliata. Anzi, probabilmente è tra le più esatte, perché coglie un movente fondamentale e non culturale del nostro rapporto con la finzione, la ricerca di quell’emozione sublimata e trasognata che si legge così bene sulla faccia dei bambini quando guardano un cartone animato.


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