Mezzo secolo di catastrofi
GAZA – Il 15 maggio non sarà mai una data come le altre per i palestinesi. E le iniziative ad essa collegate non saranno mai rituali. Il 15 maggio 1948, giorno della fondazione di Israele, per i palestinesi è la Nakba, la «catastrofe», la perdita della terra e l’esilio di centinaia di migliaia di profughi (oggi oltre 5 milioni) che a distanza di 64 anni chiedono di poter tornare nella loro terra d’origine.
È la memoria collettiva di un intero popolo. E lo sciopero della fame nelle carceri israeliane di 1600 prigionieri politici (su circa 5mila) – contro la detenzione amministrativa – quest’anno si aggiunge al bagaglio di prove che i palestinesi affrontano da sempre.
Poco importa se ieri sera è stata annunciata la fine della protesta nelle carceri, dopo la decisione delle autorità israeliane di accogliere, su insistenza dei mediatori egiziani, parte delle richieste dei detenuti in lotta.
Ovunque oggi, dalla Galilea dove vive gran parte dei palestinesi d’Israele ai campi profughi libanesi che accolgono i più sfortunati tra i profughi, dalla Cisgiordania fino a Gaza, saranno i detenuti il punto di riferimento di ogni manifestazione e corteo. In particolare Bilal Diab e Thaer Halahla, che per oltre 70 giorni hanno rifiutato il cibo a rischio della vita.
Secondo l’Associazione dei prigionieri palestinesi, i mediatori egiziani avrebbero strappato agli israeliani la fine della pratica dell’isolamento e la concessione alle famiglie di Gaza di visitare i propri parenti rinchiusi in carcere.
Israele non ha accettato invece di rinunciare alla detenzione amministrativa, misura extra-giudiziaria illegale (una eredità del Mandato britannico sulla Palestina) per il diritto internazionale, che consente di incarcerare i palestinesi senza processo e solo sulla base di indizi e sospetti per un periodo di alcuni mesi.
Una misura «cautelare» che in teoria può essere rinnovata all’infinito. Ne sa qualcosa Thaer Halahla, in detenzione amministrativa da due anni, che dal carcere militare di Ramle qualche giorno fa ha inviato, grazie al suo avvocato, una lettera alla figlioletta Lamar mai conosciuta.
«Nonostante sia stato privato dal tenerti in braccio e dal sentire la tua voce – ha scritto Halahla – dal vederti crescere e muoverti in casa e nel tuo letto, e sia stato privato del mio ruolo di essere umano e di padre con mia figlia, la tua esistenza mi ha dato tutto il potere e la speranza… quando sarai grande capirai che la battaglia per la libertà è una battaglia per tornare da te, per non essere più portato via o privato del tuo sorriso e vederti di nuovo, perché l’occupante non mi porti via nuovamente da te».
Una settimana fa la Corte Suprema israeliana aveva rifiutato l’appello presentato da Thaer Halahla e Bilal Diab che richiedeva il rilascio immediato per mancanza di accuse.
L’accordo per la fine dello sciopero della fame è stato salutato con entusiasmo in Cisgiordania e Gaza ma risolve solo in parte la questione aperta delle detenzioni amministrative. Israele è disposto solo a rendere «meno pesante» il carico di questa misura che al momento colpisce 308 palestinesi.
Un successo metà che è stato addolcito dalla denuncia (tardiva) dei ministri degli esteri dell’Ue della colonizzazione israeliana in Cisgiordania e Gerusalemme Est, considerata «incompatibile» con la soluzione dei due Stati per due popoli.
Il documento europeo deplora l’accelerazione dell’ampliamento delle colonie israeliane negli ultimi anni, la moltiplicazione degli atti «violenza ed estremismo» da parte dei coloni e sottolinea «l’aggravamento» delle condizioni di vita dei palestinesi nella zona C (il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo di Israele).
I ministri degli esteri ammoniscono infine che l’Ue «non riconoscerà alcuna modifica» delle linee antecedenti la guerra del 1967 (inclusa l’occupazione israeliana di Gerusalemme est) se non di fronte a un’intesa su scambi di territori concordata con i palestinesi.
Per Israele il documento giunto da Bruxelles è una «lunga lista di richieste e critiche basate su un quadro parziale, prevenuto e unilaterale della realtà sul terreno».
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