Sendero luminoso Il ritorno in Perù dei maoisti della selva

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La verità , amara e diretta, emerge tre giorni fa. Il presidente Ollanta Humala ha appena incassato il suo primo risultato contro la rinascita di un terrorismo dato per sconfitto. Si compiace con le forze dell’ordine, avverte che il Perù non si farà  soffocare dall’incubo del passato, mostra soddisfatto l’ultimo colpo inflitto ai resti di “Sendero Luminoso”, il gruppo armato maoista responsabile della più grande mattanza (35 mila morti) degli Anni ‘80. Florindo Eleuterio Flores Hala, il “compagno Artemio”, capo del Comitato regione dell’Alto Huallaga, ricercato dal 1984, il capo chino, le mani strette dalla catene, si fa bersagliare dai fotografi e dalla telecamere. Ma è solo un attimo.
Il tempo di smaltire l’euforia: la vittoria si trasforma in sconfitta. Una colonna di “senderisti” assalta un accampamento di lavoratori a Camisea, vicino al Cuzco, impiegati nella più grande centrale di gas del paese e si porta via 36 ostaggi. È la riposta all’arresto del capo. Il gruppo non è affatto morto, finito, scompaginato. Anzi: ha aperto un nuovo fronte, con la complicità  dei narcos, a sud, nel Vrae: un acronimo che indica le conche dei fiumi Apurìmac e Ene. Lo guidano due fratelli: Victor e Martin Quisepe Palomino, i “compagni José e Gabriel”.
Quelli della linea dura, contrari ad ogni compromesso con lo Stato. Si sono staccati da “Artemio”, favorevole ad una trattativa di pace. E adesso, dopo la sua cattura, con le armi indicano la nuova strategia. Il governo Humala accusa il colpo. Scatena la più grande operazione degli ultimi dieci anni: spedisce duecento soldati e poliziotti nella giungla. Battono la zona per cinque giorni ma i senderisti sembrano scomparsi. In apparenza: al quinto giorno rilasciano gli ostaggi e iniziano una serie di incursioni che mettono a dura prova i soldati di Humala. Due elicotteri sono abbattuti, un terzo atterra in una radura a fatica. Sul terreno restano sette morti e dodici feriti. Nessun arresto tra i terroristi. Gli ostaggi sono liberi, è un successo: Humala preferisce esaltare quella che considera comunque una vittoria.
Non si rassegna invece Dionisio Vilca. Suo figlio César e il commilitone Luis Astuquillca, da una settimana sono dispersi nella giungla. Facevano parte dei poliziotti spediti nel Vrae per trovare gli ostaggi. Il loro elicottero li ha sbarcati in una zona isolata e da quel momento non si hanno più notizie. Dionisio Vilca stampa centinaia di foto di suo figlio, raggiunge da solo quella zona impervia e convince i contadini a fargli da guida. Alla fine il sottufficiale viene trovato. Morto. Il suo corpo è trasportato a Lima dove si svolgono funerali solenni. Humala partecipa, commosso. Spiega che «solo la pressione dei soldati ha costretto i terroristi a rilasciare gli ostaggi e a fuggire all’interno della giungla». Ma i conti non tornano. Molti familiari dei poliziotti e soldati si lamentano. Sostengono che nell’operazione ci sono stati più morti di quelli ufficiali. Chiedono la verità . Humala resta impassibile. Ma due settimane dopo c’è il nuovo colpo di scena: Luis Astuquillca appare dal nulla. Per 14 giorni ha vagato nella giungla, è sopravvissuto ma è tornato a casa con le sue gambe. Sembra un miracolo. Ma è un miracolo che alimenta altri sospetti e copre altre bugie. Le svela lo stesso Astuquillca ai giornalisti. Racconta di essere stato abbandonato assieme al suo compagno César Vilca, che il suo commilitone era rimasto ferito gravemente durante l’ennesimo assalto dei «senderisti».
L’operazione è un fallimento. Il governo è imbarazzato, la verità  emerge con le ore. Ed è una verità  dura da accettare: la vittoria si trasforma in sconfitta. La crisi diventa politica. La maggioranza dei peruviani è convinta che “Sendero luminoso” è tornato sulle scena, che costituisce una minaccia. Ancora più pesante oggi, con il paese che continua a registrare un tasso di crescita dell’8 per cento. L’opposizione ne approfitta: fa approvare una mozione di sfiducia nei confronti dei ministri della Difesa e dell’Interno. I due ministri presentano le dimissioni. Ma il presidente Humala è in Corea, preferisce tacere, resiste alla bufera. La vicepresidente rifiuta di prendere una decisione. Nel silenzio sempre più imbarazzato parla solo la first lady, vera anima politica del “Partido nacionalista peruano”. «Le dimissioni dei ministri», dichiara Nadine Heredia, «sarebbero un regalo per la narcoguerriglia». Ma è tardi. La seconda crisi in cinque mesi pesa sul paese. Il ritorno della formazione armata fondata da Abimael Guzmà n e sconfitta con il suo arresto nel 1992, rilancia la figura sbiadita di Alberto Fujimori. Fu lui, come presidente, a sbaragliare la banda sanguinaria. Con un paradosso. Oggi, a vent’anni esatti dal suo autogolpe, si gode la rivincita da dietro le sbarre.


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