Dove non osano neppure i «falchi»
La coalizione del primo ministro Netanyahu godeva di una maggioranza solida, stabile e uniforme. In base alla legge elettorale, le prossime elezioni sarebbero state nell’ottobre 2013. Ed ecco apparire alcuni malumori, la questione del reclutamento di giovani ultrareligiosi comincia a tenere banco, e alcuni membri della coalizione di governo sembrano voler risolvere questo e altri problemi anticipando la data delle elezioni. Per il primo ministro, un dilemma: senza consultazione elettorale potrebbe arrivare alla fine del suo mandato, il più lungo periodo senza elezioni anticipate, un successo per un governo che non può annotare altro che la paralisi del processo di pace, la continuazione della politica neoliberale e la leadership della campagna contro l’Iran. All’interno i problemi erano più o meno “provinciali”: la corte suprema aveva appena deciso di far abbattere un pugno di case in una colonia nel Territori occupati, costruite in forma chiara e potente «su terre che appartengono ai palestinesi», e già si levavano le ali estremiste del Likud minacciando una ribellione interna, cosa scomoda in un partito che si presenta di destra con aroma di centro. Per farla breve, la maggioranza dei partiti si dice d’accordo a votare la legge per anticipare le elezioni al 4 settembre, domenica scorsa Netanyahu annuncia la sua decisione «in favore degli interessi nazionali, per rafforzare la stabilità » eccetera, forse pensando anche di dimostrare a Obama di avere l’appoggio popolare e, con un mandato rinnovato, di poter attaccare l’Iran prima delle elezioni di novembre negli Stati Uniti. Ma nella coalizione alcuni temono che le proprie gradevoli poltrone possano non sopravvivere a nuove elezioni. Il ministro della difesa Barak, ad esempio, che da quando ha lasciato i laburisti si è reso molto impopolare, o il generale Mofaz, un falco quando abbandonò il Likud («è la mia casa e la casa non si lascia», disse un venerdì, e la domenica era passato a Kadima) e oggi leader del partito di centrodestra che accusa Netanyahu di ogni peccato, dichara di volersi mettere alla testa della imminente protesta sociale ma a fatica ha ottenuto per il suo partito un terzo dei posti che ha oggi. E, sorpresa, mentre cominciavano i lavori per far passare la legge sulle elezioni anticipate, Barak e Mofaz tessono un accordo che porta Kadima nella coalizione di governo e annulla il voto anticipato. In poche ore il panorama cambia: Mofaz vice primo ministro, Barak col suo ministero assicurato, Netanyahu senza il rischio di un partito radicalizzato che lo allontanerebbe troppo dal centro, vari deputati respirando meglio davanti alla prospettiva di altri 14 mesi in parlamento. La puzza della manovra arriva nelle case di Israele senza altre conseguenze che un altro po’ di apatia e di schifo per la politica – ottimi ingredienti, tuttavia, per arrivare al fascismo o peggio. In Israele si può allegramente mantenere una facciata democratica per gli ebrei, mentre cresce la discriminazione per gli israelo-palestinesi, la situazione nei Territori occupati si deteriora e l’alleanza nazionalista-fondamentalista porta ogni giorno di più a un sistema totalitario con sembianze democratiche. E mentre già si notano alcuni effetti della crisi economica internazionale, il governo accentua i suoi colori neoliberali e potrà così affrontare meglio lo scontento di alcune classi popolari. E la guerra? Ogni previsione è pura congettura, chi cerca pronostici deve tenere in conto varie questioni. Il primo ministro vive e si nutre di un messianesimo fondamentalista che trasforma l’Iran nel nuovo Hitler e la Shoah trasuda, svilita, in tutta la propaganda ufficiale. Netanyahu e Barak vorrebbero un attacco all’Iran, che tutti sanno potrebbe comportare conseguenza disastrose per la regione e per Israele. Le elezioni americane li liberano da pressioni troppo forti. Mofaz si è dichiarato ripetutamente contrario a un attacco, ma è un campione mondiale di slalom e non vuol dire molto. Ma proprio tra i ministri più falchi c’è una maggioranza che si oppone all’attacco. Paradossalmente, la forza più seria contro l’attacco è l’establishment della sicurezza. Un falco conosciuto e rispettato come l’ex direttore del Mossad, Dagan, si è espresso contro. Come l’ex direttore dei servizi segreti, l’ex comandante in capo dell’esercito si è guadagnato l’inimicizia di Barak assumendo la stessa posizione, e lo scandalo che ha circondato la nomina del nuovo comandante ha messo in quella posizione un generale che si oppone all’attacco. In conclusione, chi crede che la grande coalizione porti o no alla guerra esprime congetture difficili da sostenere. In Israele gli ottimisti pensano alle prossime proteste sociali in estate, i pessimisti ripuliscono i rifugi antiaerei.
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