Damasco, i kamikaze rompono la tregua due autobomba fanno più di 50 morti

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Sono 55 i cadaveri che è stato possibile contare, 372 i feriti, molti dei quali destinati a morire. Gli obiettivi che i kamikaze alla guida delle due autobomba avevano in animo di colpire erano probabilmente due installazioni militari: una caserma e la sede della Sezione “Palestina” dell’Intelligence militare, ma l’onda delle esplosioni s’è riversata sulla gente che, in macchina, stava andando al lavoro e su un quartiere popolare, trasformando quello che avrebbe dovuto essere un atto di guerra tra fazioni armate in un massacro di civili.
Anche la fragile tregua, faticosamente raggiunta il 12 Aprile dall’inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba, Kofi Annan, ne esce ulteriormente scheggiata. L’ex segretario generale dell’Onu (un attentato «abominevole», ha detto) non smette di invitare le due parti contrapposte a rispettare l’accordo per il cessate il fuoco da lui stesso promosso come primo passo verso una soluzione negoziata della crisi. Ma è un’immagine di solitudine quella del convoglio con il generale Robert Mood, comandante degli osservatori, soltanto ieri bersaglio di un ordigno artigianale mentre viaggiava sulla strada per Dera’a, che s’avvicina scortato dalla polizia verso il luogo dell’attentato.
Nel dramma siriano anche un’azione terroristica viene risucchiata dalla contesa politica. Le profonde fratture aperte nella comunità  internazionale si sono riproposte anche ieri, con gli Stati Uniti riluttanti ad intervenire ma pronti a contestare ad Assad le violazioni della tregua e la Russia che difende il Raìs e non esita ad evocare una «mano straniera» nella duplice autobomba.
Ma gli strateghi del caos che alle otto del mattino hanno teleguidato gli attentatori suicidi sulla tangenziale di Damasco, nel distretto di al Qazaz in direzione dell’aeroporto, sembrano avere in mente scenari conosciuti. I modelli ispiratori non mancano: l’Iraq dilaniato dalle esplosioni con l’obiettivo di mettere sciiti e sunniti gli uni contro gli altri, così realizzando una partizione di fatto del paese, o il Libano della guerra civile che ha portato, se non alla dissoluzione, a una sorta di irreversibile indebolimento della sovranità  libanese.
Quando arriviamo sulla tangenziale non è passata più di un’ora da quando, qualche minuto prima delle otto, Damasco è stata scossa dai due boati. La scena che si apre davanti a noi sembra dettata da un’agghiacciante architettura dell’orrore. Decine di macchine sembrano fuse in un unico ammasso fumante di lamiere. L’odore di tutto quello che ancora brucia, gomma, benzina, brandelli di vita umana, è acre e irrespirabile. Un tir che trasportava cemento sembra ridotto ad una carcassa scheletrita, la cabina di guida girata di 180 gradi contro il rimorchio. Una berlina giapponese catapultata in aria è atterrata sull’aiuola che separa le due corsie della superstrada. Un taxi giallo, ricoperto di uno spesso strato di polvere s’è inchiodato con il cofano sul terreno. Dentro, riverso sul volante c’è il cadavere dell’autista.
Oltre a provocare un cratere largo più di tre metri e profondo due, le due autobomba, esplodendo, hanno scatenato una pioggia di schegge, pezzi di motore, lamiere taglienti, vetri in frantumi che ha investito non soltanto la superstrada per centinaia di metri, ma anche un edificio di sette piani, la sede dell’Intelligence sugli affari palestinesi (uno dei 22 servizi di sicurezza siriani e, a quanto pare, uno dei più temuti) e, sul lato di fronte, le palazzine del quartiere di Zahra al Jiadida. E’ qui che sarebbero stati colpiti alcuni bambini che stavano andando a scuola.
Ma ecco che il silenzio avvolgente viene spezzato da un coro ritmato. Come sorto dal nulla, ma probabilmente uscito da uno degli edifici militari, un corteo di Shabiha, i miliziani armati fedeli al regime di Assad, kalashnikov in pugno, tascapani pieni di munizioni, ma in abiti civili, avanzano sulla strada gridando slogan di fedeltà  al presidente. Brandendo i fucili mitragliatori al cielo, sfiorano il cratere dell’esplosione e avanzano verso la piccola folla di curiosi e le poche telecamere che il cordone stretto intorno alla scena ha lasciato filtrare. Hanno la rabbia segnata sul volto: «Assad/libertà », continuano a gridare. Anche perché, appena 48 prima, nove Shabiha, miliziani come loro, erano stati uccisi alla periferia di Damasco in un attacco della guerriglia a colpi di lancia granate contro l’autobus su cui viaggiavano.
E’ in un momento come questo che, raffigurandosi come le vittime di una manovra ordita dall’esterno, i sostenitori di Assad fanno sentire la loro voce. Un giovane ci viene incontro ripetendo come in un rosario: «Tutto questo è opera dell’Arabia Saudita». Nadine Haddad, un’insegnante di 40 anni, cristiana, lancia la sua fredda invettiva contro il primo ministro del Qatar, Hamad bin Jassim al Thani: «Hamad – dice Nadine serrando le labbra – tu stai distruggendo il popolo siriano, non il regime. Tu stai uccidendo i nostri figli».
Qatar e Arabia Saudita sono, fra i paesi arabi, i più risoluti a sostenere che l’unico modo di risolvere la crisi siriana sia armando i ribelli. Dunque, sui leader di Qatar e Arabia Saudita si concentra il fuoco della propaganda che li accusa di essere ispiratori e finanziatori della protesta contro il regime. Così come, contro gli stessi paesi sembrano indirizzati gli strali del ministro degli Esteri, Muhallam, che ieri ha chiesto al Consiglio di Sicurezza di proceder «contro gli Stati e i gruppi che praticano il terrorismo». Il Consiglio di sicurezza ha condannato con fermezza l’«attentato terroristico», il più grave compiuto contro la capitale siriana da quando, 14 mesi fa, è esplosa la rivolta.
Ieri Damasco ha continuato per ore a rabbrividire dietro l’urlo ininterrotto delle sirene. Poi, sotto l’incalzare della calura quasi estiva, la città  s’è come rilassata. Il traffico è ripreso a scorrere normalmente sulle strade chiuse dalla polizia per lasciare corridoi aperti ai soccorsi. «Vedi – commentava un amico siriano – qualche settimana fa, dopo un attentato anche meno grave di questo la gene sarebbe tornata a casa. Oggi disgraziatamente ci stiamo abituando».


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