Se la nostra eredità  in Rete non finisce nelle mani giuste

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NEW YORK — Manoscritti, scatole di foto ingiallite, i riferimenti dei conti bancari, magari la chiave di una cassetta di sicurezza. Quando una persona cara scompariva, fino a ieri era questo che i parenti cercavano per ricostruirne la memoria, serbarne il patrimonio. Intellettuale e materiale. Non più: nell’era digitale tutto cambia. E diventa caotico. Molti di noi gestiscono i loro rapporti bancari e gli investimenti «online», hanno uno o più «blog», sono utenti di Facebook e, magari, di altre reti sociali. Hanno l’«account» di Twitter e gli album delle foto parcheggiati in qualche «nuvola» o su Flickr.
Una vita vorticosa, spesa sfruttando le enormi possibilità  offerte da Internet. Finendo, a volte, prigionieri delle proprie stesse password. Ma cosa succede quando la nostra vita terrena finisce? Ricostruire la nostra esistenza digitale per chi rimane è un incubo. Angosce sulle quali in America è stata già  costruita un’industria fatta di libri (come «Your Digital Afterlife» di John Romano) concepiti come una guida per chi deve ricostruire su Internet pezzi di vita di un caro scomparso e di siti — da LegacyLocker a Entrustet a DataInherit — che offrono a chi se ne serve, strumenti di ricerca o, addirittura, «casseforti digitali» nelle quali conservare ciò che ognuno vuole trasmettere ad amici e discendenti. In alcuni casi questi ultimi possono, poi, offrire i loro contributi per ricostruire e celebrare la memoria dello scomparso.
Ma gli utenti di questi servizi (peraltro a pagamento: una cassaforte digitale costa 30 dollari l’anno) sono una minoranza a fronte di un problema immane. In un anno nei soli Stati Uniti muoiono circa mezzo milioni di utenti Facebook. Conti che spesso restano attivi e materiale (post, dialoghi, foto, storie) che va perduto anche perché in genere i parenti non sanno cosa e dove cercare, mentre le procedure per avere accesso al profilo di una persona scomparsa differiscono da sito a sito.
Un problema talmente complesso e, in prospettiva, rilevante da indurre lo stesso governo americano a scendere in campo con un post sul blog di USA.gov, il sito attraverso il quale l’Amministrazione Obama dialoga coi cittadini. Il governo, in sostanza, invita gli americani attivi sul web ad affiancare al testamento tradizionale una dichiarazione delle proprie volontà  riferita esclusivamente alla propria vita elettronica, affidata a un «esecutore digitale» di propria fiducia al quale andranno consegnati, tra l’altro, tutti i propri «username», le «password» e l’elenco dei siti nei quali si lascia un’impronta, dei blog, dei profili sulle reti sociali. Con l’avvertenza di controllare le politiche di «privacy» dei siti web sui quali si è presenti e di fare in modo che, quando verrà  il momento, a questo esecutore venga consegnata una copia del certificato di morte, senza il quale nessuno è autorizzato a chiudere un «account» o a far entrare un estraneo nel profilo dell’utente.
Consigli saggi ma difficili da attuare, ha commentato subito il pubblico. Anche perché la nostra vita digitale non è statica. Cambiano gli interessi, le tecnologie, le password. «L’americano medio ha 25 conti protetti da parole-chiave, otto dei quali vengono usati ogni giorno» dice la giurista della George Washington University, Naomi Kahn. In Inghilterra un testamento su dieci contiene tutte le «password» sensibili di chi lascia le sue volontà . «Ma anche su questo bisogna stare attenti — aggiunge la Kahn — perché una volta scomparsi il testamento diventa un atto pubblico. Le chiavi d’accesso vanno protette in altro modo».
Conservare la memoria di una persona cara, poi, sta diventando sempre più spesso anche una questione di tecnologia: le foto di molti di noi sono disperse tra schede delle fotocamere digitali, telefonini, iPad. Magari sono archiviate in un PC il cui «hard disk» si rompe all’improvviso. Vale per i comuni mortali come per chi lascia un grande patrimonio economico o intellettuale. Poco prima di morire, lo scrittore John Updike ha affidato 50 vecchi «floppy disk» pieni di scritti inediti alla Houghton Library di Harvard che, però, non trovando gli strumenti per leggere supporti magnetici ormai in disuso da decenni, si è limitata a tramandarli ai posteri, conservando i dischi in un ambiente controllato.
Quanto a Steve Jobs, scomparso nell’autunno scorso, è opinione diffusa che il fondatore della Apple, pur avendo sfornato per decenni straordinari strumenti elettronici, non si sia mai affidato più di tanto ai supporti digitali. Il creatore dell’iPod amava ascoltare la musica dei dischi di vinile, si teneva alla larga da Facebook e dalle altre reti sociali e, prima di scomparire, ha sistemato con cura il suo patrimonio familiare e i programmi futuri della Apple. Lasciando tutto scritto, nero su bianco.


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