Un governo unitario. Per la guerra
Benyamin Netanyahu è «disgustoso», ma senza dubbio è il re della politica. Così scriveva ieri il quotidiano liberal Haaretz, commentando l’improvviso e clamoroso accordo per l’annullamento del voto anticipato e per la formazione di un governo di unità nazionale raggiunto lunedì notte da Netanyahu e Shaul Mofaz, leader di Kadima, il principale partito d’opposizione.
L’intesa mette a disposizione del primo ministro una supermaggioranza di 94 deputati su 120 della Knesset. Mai nella storia di Israele un governo aveva goduto di tanto consenso. Netanyahu re della politica e, forse, in tempi brevi anche dio della guerra. Nessuno si lasci ingannare dalle manovre diversive del premier che ieri, in conferenza stampa accanto a Mofaz, ha detto che il nuovo esecutivo si occuperà dell’approvazione del bilancio per i prossimi due anni, del servizio militare obbligatorio anche per gli ebrei ultraortodossi, della riforma del sistema elettorale e del «processo di pace» (quale?). La troika al potere – Netanyahu e i due ex capi di stato maggiore Mofaz e Ehud Barak (attuale ministro della difesa) – avrà come compito prioritario quello di occuparsi di un tema neppure accennato durante l’incontro con i giornalisti: l’attacco alle centrali atomiche iraniane.
Mofaz, che nelle scorse settimane insultava Netanyahu e sosteneva a gran voce di voler dare battaglia al governo sui temi dell’economia, non è entrato nella coalizione perché attirato dalla possibilità di andare al voto alla scadenza naturale della legislatura tra un anno (in modo da avere il tempo di recuperare consensi per Kadima, oggi in caduta libera) o perchè farà il vice premier e il ministro (senza portafoglio). Mofaz ha accettato di far parte del governo perchè sa che Israele prenderà presto una decisione critica per le sorti dell’intero Medio Oriente e, forse, lo farà contro il volere degli alleati nordamericani. «Non so quando potrebbe scattare l’attacco, ci sono anche le presidenziali americane e fino ad allora Obama non vuole sorprese. So però che Israele non attenderà all’infinito che le sanzioni internazionali (contro l’Iran) facciano effetto. I tempi? Israele non aspetterà più di un anno», spiegava ieri al manifesto il professore Shmuel Sandler, analista del Centro ‘Besa’ per gli studi strategici di Tel Aviv.
La guerra perciò si avvicina, con o senza il consenso Usa. E’ insensato pensare che Israele continui a flettere i muscoli al solo scopo di «intimorire» un Iran che sino ad oggi non si è fatto impressionare dai tamburi di guerra. Netanyahu e Barak (e ora anche Mofaz), tra l’altro, vogliono che l’Iran cessi totalmente l’arricchimento dell’uranio, ponendo una condizione inaccettabile a Tehran che, da parte sua, afferma con decisione di non volersi dotare di armi atomiche e, a sua volta, accusa il mondo di chiudere gli occhi davanti all’arsenale nucleare israeliano. L’emergere della «troika» è anche una risposta secca all’accusa di «messianesimo» che due importanti ex capi dei servizi di sicurezza dichiaratamente contrari all’attacco, Meir Dagan e Yuval Diskin, e in modo più soft anche l’attuale capo di stato maggiore Beny Gantz, hanno rivolto a Barak e (specialmente) a Netanyahu a proposito di piani di attacco al programma nucleare iraniano.
«Quando questa mattina mia moglie è uscita di casa, le ho suggerito di acquistare batterie (per la radio) e di fare scorta di acqua imbottigliata», ha scritto David Weinberg, commentatore del quotidiano Yisrael Hayom molto vicino a Netanyahu. Serviranno provviste e riserve d’acqua per una guerra che avrà conseguenze pesanti anche per i civili israeliani, ha indirettamente segnalato Weinberg ai suoi lettori. L’accordo tra Mofaz e Netanyahu, ha aggiunto l’analista, «non può essere intepretato come una furbata di natura politica, piuttosto deve essere letto come la preparazione alla più grande delle sfide: la minaccia iraniana». Per Ron Ben Yishai, opinionista del quotidiano più venduto del paese, Yediot Ahronot, il supergoverno guidato da Netanyahu «rafforza la capacità israeliana di premere sui cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu affinchè non facciano troppi compromessi con l’Iran». Netanyahu inoltre si copre le spalle, afferma Ben Yishai: «un governo di unità nazionale minimizzerà le critiche in caso di fallimento dell’operazione militare contro l’Iran».
In questo quadro generano non poca perplessità gli avvertimenti lanciati dall’Anp di Abu Mazen al nuovo governo israeliano di unità nazionale, al quale i palestinesi chiedono di mettere fine ad ogni attività di espansione delle colonie nei Territori occupati se vorrà riprendere i negoziati. «Questo è il momento giusto perchè il governo israeliano faccia la pace con il popolo palestinese, accettando immediatamente i prerequisti per il processo di pace. Questi sono lo stop immediato a tutte le attività negli insediamenti colonici», ha detto il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeineh. A quanto pare l’Anp è l’unica a credere ancora alla possibilità di una trattativa, su un piano di parità , con il governo israeliano, attuale e futuro (sempre con Netanyahu premier, secondo i sondaggi). In assenza di pressioni internazionali, con Barack Obama impegnato con le presidenziali, la questione palestinese è l’ultimo dei pensieri dei leader politici israeliani.
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