La Seconda Evoluzione “Quella biologica è finita, ci resta la cultura”

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New York – Ciao Darwin: l’evoluzione è finita. La prima. Perché la seconda evoluzione, quella culturale, è appena cominciata: o quasi. Qui al quarto piano del Museo di Storia Naturale, dove Woody Allen corteggiò Diane Keaton in Manhattan e Ben Stiller si perse in Una notte al museo, Ian Tattersall, il direttore del dipartimento di Paleontologia, si aggira tra scheletri di ominidi e scapigliatissime cere di Homo Sapiens. E alla vigilia di un convegno in cui a Venezia rilancerà  l’eredità  di Stephen Jay Gould – il più geniale interprete contemporaneo dell’evoluzione – l’autore di Masters of The Planet ci guida, come recita il sottotitolo del nuovo libro, «alla ricerca delle nostre origini umane». Con più di uno sguardo al futuro.
Ma allora, professore, l’evoluzione può ancora agire sull’uomo? 
«Molto improbabile. Un conto sono i limiti dell’immaginazione e della conoscenza: e qui si tratta di esplorare il potenziale che possediamo già . Un conto è l’evoluzione biologica: e qui dovremmo avere delle novità  genetiche».
E perché non sarebbe più possibile?
«Perché si verifichi evoluzione biologica occorrono due ingredienti: l’isolamento e una popolazione di dimensioni ridotte perché la modifica genetica si assesti. Nel nostro caso non abbiamo più né l’uno né l’altra. Ci ritroviamo con questa gigantesca popolazione che ormai copre il mondo intero: troppo grande per muoversi biologicamente verso nuove direzioni».
Prigionieri del nostro sviluppo.
«Ma se ragioniamo nei termini di quello che possediamo già , beh, qui non ci sono limiti al cambiamento. O quantomeno non li conosciamo».
Siamo di fronte a una “seconda evoluzione”?
«È quello di cui parliamo quando parliamo di evoluzione culturale. Che procede in maniera differente rispetto all’evoluzione biologica. La cultura si può trasmettere lateralmente in una stessa generazione: l’evoluzione biologica va di generazione in generazione».
E che tipo di evoluzione allora prevede?
«Siamo sempre più guidati dalla tecnologia. Però nessuno può dirci dove ci porterà . Siamo animali sociali e la tecnologia interferisce con la nostra socialità . Ed è a questa intermediazione tecnologica che saremo costretti ad adattarci. La maggior parte degli esseri umani non può interagire in modo significativo in un network più grande di 150 persone: limite superato di gran lunga. La maggior parte della nostra attività  sociale, poi, è destinata a non svolgersi più faccia a faccia: ma proprio attraverso la tecnologia».
Lei però ricorda che il cervello ha sviluppato le funzioni più evolute su uno strato primitivo: “Non importa quanto possiamo vantarci della nostra razionalità : non siamo esseri interamente razionali”. La seconda evoluzione, l’evoluzione culturale, cambierà  questo rapporto? La vecchia struttura irrazionale sopravviverà ?
«Penso proprio di sì. Biologicamente restiamo legati al nostro essere come siamo».
Lei chiarisce che l’uomo di Neanderthal appartiene a una distinta specie di ominidi poi estinta. Però ipotizza anche una coabitazione col Sapiens. Cosa potevano provare gli Antenati verso il “cugino”? La stessa vicinanza/distanza che noi proviamo con le scimmie?
«Il senso di vicinanza sarà  stato superiore. Anche se il Neanderthal non aveva la capacità  di processare le informazioni come noi. O il linguaggio come lo intendiamo noi. Ma il fatto che il Sapiens percepisse di avere di fronte una creatura “aliena” non vuole dire che non ci possa essere stata qualche forma di ibridazione: anzi gli studi del Dna lo suggeriscono. Anche se insignificante: nulla che possa avere influenzato la traiettoria dei due gruppi».
Neanderthal scompare, Sapiens resta. Se è colpa nostra, è il primo genocidio della storia.
«Conoscendo come l’Homo Sapiens interagisce anche con le altre popolazioni di Sapiens, oggi, l’impressione è che qualche livello di conflitto ci sia stata. Dovunque l’Homo Sapiens si sia spostato è sempre successo. Va verso l’Asia orientale, dove vive l’Homo Herectus, e quello scompare. Lo stesso succede all’Homo Floresiensis. E prima ancora in Africa: qualunque cosa ci fosse prima, scompare. Insomma il Sapiens è riconoscibile come già  interamente moderno non solo nella forma anatomica: anche nei comportamenti».
C’è una ragione genetica?
«Ha più a che fare con il modo con cui elaboriamo le informazioni. Il primo Sapiens anatomicamente uguale a noi sembra comportarsi ancora come il Neanderthal. Solo dopo scopre il potenziale cognitivo che presumibilmente possedeva già  al momento della nuova conformazione anatomica. È proprio una delle lezioni di Steve Gould. Il concetto di “ex-aptation” oltre a quello di “ad-aptation”: qualcosa che nasce in un contesto prima di essere usato in un altro. Gli uccelli, per esempio, si ritrovano le ali prima ancora che le utilizzino per volare».
E le scimmie? Potrebbero mai recuperare il gap? Gli esperimenti come nel film Nim, la scimmia che negli anni 70 finì sulla copertina di Newsweek, saranno sempre destinati al fallimento?
«Quel film è un ottimo ritratto di una scienza molto naive. Le scimmie non sono capaci di gestire i simboli se non in maniera additiva: non li reinterpretano come facciamo noi. Sì, possono metterli in fila. Se tu dici a una scimmia: porta la palla rossa fuori, quella prende la palla rossa e la porta fuori, istruita a riconoscere la palla rossa. Ma il ragionamento additivo è limitato: metti in fila tot azioni e lo spazio nel cervello è finito».
Proprio in questi giorni un altro grande, O. E. Wilson, con The Social Conquest of Earth fa insorgere i seguaci di Darwin: sostenendo che la selezione agisce attraverso i gruppi e non gli individui.
«Non sono sicuro che si possa parlare di selezione di gruppo all’interno delle stesse specie: ma non sono neppure sicuro che la selezione naturale sia davvero l’agente determinante del cambiamento. La selezione naturale elimina gli estremi piuttosto che spingere verso differenti direzioni. Per questo credo che il caso abbia un posto molto più importante di quello che gli riserviamo. Probabilmente è fuorviante parlare persino di processo evolutivo: più accurato parlare di molti più processi che danno poi origine a quello che noi leggiamo, in retrospettiva, come evoluzione».
E guardando indietro a questa evoluzione, il segreto della condizione umana allora qual è?
«Non esiste condizione umana. Per ogni parola che la descriva si può trovare l’opposto. E tutte le cose meravigliose della nostra specie sono bilanciate, dall’altro lato dell’equazione, da qualcos’altro. La storia dell’uomo è una storia di conseguenze non volute: compreso, oggi, il rischio di distruzione per 20 milioni di specie. Ecco perché dico che il futuro dipende dall’esplorazione del potenziale che già  possediamo: nel nostro cervello. No, non credo che l’evoluzione ci verrà  più in soccorso sul suo bel cavallo bianco, a salvarci dalle nostre follie: non credo proprio».


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