Orizzonti chiusi sotto lo sguardo di Ornela Vorpsi

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Fuorimondo, fuorivita, è la condizione, una sorta di limbo preliminare alla follia, in cui si trova sospesa la giovane narratrice Tamar, «io Tamar», condannata a essere spettatrice dell’intreccio strettissimo di vite che popola la sua via, la sua famiglia e il suo quartiere, e che si estende fino a occupare l’esistenza tutta. 
Non c’è mondo fuori dalla famiglia e dal vicinato, non c’è orizzonte che abbracci un’altra vita lontana dagli affetti primari, primitivi e magici, nella narrazione che intesse Vorpsi: via e vita coincidono non solo per Tamar – prima giovane donna e poi adulta che gestisce un piccolo negozio di ottica per aiutare la gente a vedere meglio, in memoria del fratellino Rafael afflitto dal potere del «vedere tremendo» – ma per i suoi genitori, Esmé la madre mal amante e il calzolaio Nikolin, la vicina Maria dalle gravidanze incessanti che partorisce solo maschi, e soprattutto il bel Rudolf, detto affettuosamente Dolfi, cristicamente figlio di Maria e motore immobile della storia, nella sua perfezione fisica che condanna a spasimare sulla soglia innumerevoli ragazze del quartiere, e tra loro Manuela, presto suicida per amore. 
La morte passa di mano in mano, di casa in casa, come un amuleto del mal amore in questa prosa, convincendo Tamar, che rifugge le cure mediche che potrebbero strapparla alla sua «provvidenza», di possedere l’oscura capacità  di incitare al suicidio con il potere della parola, quella che potremmo definire la performatività  estrema. Fuori, nel mondo, ci sono conservatori e sale da concerto dove ci si danna l’anima per raggiungere la perfezione nella musica e oscuri, magici negozi di scarpe dove artigiani intagliano formule segrete sulle suole, ci sono treni e caffè, alberghi e spiagge, mari dove si muore annegati, paesi lontani, ma tutto è visto come attraverso un vetro spesso, perché solo ciò che possiamo toccare con la mano e la carne, il calore, l’odore e il sapore, nella dimensione di questa scrittura è reale.
Vorpsi, che ha studiato Belle Arti in Albania e poi, dal 1991 all’Accademia di Brera, oltre che scrittrice, è anche fotografa, pittrice e videoartista – ha pubblicato la monografia fotografica Nothing Obvious (Scalo 2001), e sua è l’immagine di copertina di Fuorimondo – e questo imprinting si riflette nella sua prosa che più che per input narrativi si cuce per immagini: il camioncino del fratello perduto che riappare sul davanzale della «finestra maledetta» nel momento in cui Tamar vive le prime apparizioni della follia, i sandali verdi della suicida Manuela che conducono Tamar che li indossa a rivivere la vita della scomparsa, l’ombra disegnata per terra col gessetto con cui il piccolo Rafi ossessiona la sorella narratrice ancora dalla morte. 
Solo nei brandelli di immagini, negli «occhi stupore», nel «vedere tremendo», sembra dire Vorpsi, è contenuta la verità .


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