L’Università  dà  i voti agli editori

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Un marchio doc per gli editori? Dopo le riviste, è la volta delle sigle editoriali. Tocca a loro confrontarsi con la macchina della valutazione, messa in moto dal Miur per misurare la qualità  della ricerca. Non liste chiuse né norme prescrittive, spiegano all’Anvur (l’Agenzia di Valutazione dell’Università  e della Ricerca). Ma una richiesta di “trasparenza” rivolta agli editori. Appello che appassiona e divide l’editoria italiana, chiamata a raccolta a Roma dalle tre Società  di Studi Storici.
L’antefatto. Ai valutatori dell’Anvur spetta giudicare l’attività  di ricerca prodotta dall’università  italiana nell’arco di sei anni (dal 2004 al 2010). Dalle scienze umane a quelle cosiddette “dure”, sono oltre sessantamila i docenti che dovranno essere sottoposti al vaglio degli esaminatori, per un totale complessivo di circa 150.000 lavori. Una mole sterminata che – se in campo scientifico e tecnico è facile selezionare grazie a sperimentati criteri bibliometrici – nel caso delle humanities pone problemi molto seri. Nel migliore dei mondi possibili, si dovrebbe entrare nel merito di ciascun articolo, saggio o monografia. Soluzione che però viene giudicata come poco praticabile se non impossibile, vista la quantità  dei lavori esaminati.
Da qui l’idea di affiancare alla peer review – ossia all’esame del testo affidato a un giudice scientificamente “parigrado” – una classifica delle riviste suddivise tra serie A e serie B (e non classificate) che aiuti il valutatore a completare il giudizio («e a verificare la correlazione tra qualità  del contenitore e qualità  del contenuto», spiega Sergio Benedetto, coordinatore dei valutatori). Liste che hanno sollevato più di una protesta specie nel campo dell’italianistica, dove figurano declassate riviste di prim’ordine. Certo è che, per convincere un professore ad accettare il declassamento della propria rivista, bisogna procedere con il massimo di rigore e trasparenza. Altrimenti il rischio è che, all’interno della valutazione, si ripropongano quelle stesse logiche di camarilla che opportunamente si vogliono smantellare nel sistema dell’università .
Se le classifiche delle riviste possono aiutare nella valutazione dei singoli articoli, rimane il problema delle monografie: è sufficiente affidarsi alla peer review o è possibile integrare il giudizio facendosi aiutare dalla casa editrice che pubblica il libro? Qui subentra il patto proposto dai valutatori ai marchi editoriali: siete disposti a darci una mano rendendo trasparenti le vostre “procedure”? Se sì, potremo fare affidamento su di voi (e dunque ci sarà  una “medaglia”). Se no, siete escluse dalla collaborazione. Ma cosa s’intende per “procedure”? Sostanzialmente si chiede di rendere pubblici i criteri adottati dai singoli marchi nella pubblicazione dei saggi storici, e anche i consulenti regolarmente utilizzati e – altro fattore fondamentale – il ricorso a contributi economici. Finanziamenti che arrivano dai fondi di ricerca, dai singoli dipartimenti e anche dalle aziende private. Pratica universalmente diffusa, ma non sempre dichiarata. 
La proposta, declinata con accenti diversi, ha diviso l’affollata platea di editori chiamati dalle società  storiche all’Istituto Sturzo. Il timore, condiviso da gran parte delle sigle presenti – dal Mulino alla Laterza, da Rubbettino a Unicopli, da Viella a Morcelliana – è che una rigida classificazione degli editori comporti un sistema di vincoli e norme prescrittive che finirebbe per danneggiare un settore già  fortemente indebolito dalla crisi. Maurizio Serio di Rubbettino arriva a paventare «una turbativa del mercato», o comunque «un’invasione di campo che mina la sovranità  dell’editore». Per Andrea Angelini, prossimo alla carica di direttore editoriale del Mulino, «il rischio è quello di burocratizzare il lavoro editoriale. Un conto è rendere trasparenti i propri criteri di edizione, un altro essere chiamati a rispettare codici e norme fissati all’esterno. Se in sostanza l’albo raccoglie solo gli editori che aderiscono a criteri predeterminati, la cosa è molto discutibile. Un editore non è uno stampatore. Esprime una propria visione del mondo e non intende rinunciarvi».
È ancora più esplicito Ugo Berti, storico editor del Mulino a cui si riconosce il merito di aver innovato la saggistica nell’ambito delle discipline storiche. «La valutazione dell’accademia spetta esclusivamente ai valutatori. L’editore, al contrario, contribuisce a “disaccademizzare” le opere pubblicate. Quante volte mi sono trovato davanti a un saggio storico di grande valore sul piano della ricerca, l’ho fatto riscrivere con un taglio più fruibile e l’ho spostato di collana, da una specialistica a una di varia? Questo è il mestiere dell’editore, che fa un lavoro culturale, non accademico».
Come rispondono i valutatori? Andrea Graziosi, responsabile del Gev 11 ossia dell’area della valutazione che copre le discipline storiche, filosofiche e pedagogiche, ha escluso l’ipotesi di istituire una lista degli editori e un elenco di norme prescrittive. «In passato il Cun ha proposto l’accreditamento degli editori, ma è sbagliato. Va evitata ogni intromissione dello Stato nel mercato editoriale. Quel che chiediamo agli editori non è di aderire a liste, ma di rendere pubbliche procedure che spesso rimangono avvolte nell’oscurità , inducendo molti a pensare che si riesca a pubblicare solo grazie a giuste conoscenze. E anche il ricorso al sostegno finanziario, necessario per l’edizione di alcune opere, è cosa legittima. L’importante è che l’editore lo dichiari».
Questo della pubblicazione a pagamento è terreno delicato, su cui fa luce Andrea Romano, in passato funzionario editoriale dell’Einaudi e oggi editor di Marsilio. «La struttura del mercato editoriale ha ridotto gli spazi a disposizione della saggistica di ricerca storica. I libri che si continuano a vendere sono quelli di Valerio Manfredi, Corrado Augias e Alberto Angela, generalmente gli altri si vedono più di rado in classifica. Ne consegue che, quando si tratta di accogliere un titolo storico nelle proprie collane, le esigenze commerciali si fanno sentire. Esiste una pratica diffusa nel mondo editoriale, che consiste nel pubblicare titoli con il sostegno finanziario di dipartimenti, facoltà  e aziende private. E a questa potrebbe essere affiancata un’altra forma di partecipazione alle spese, ossia la garanzia data dall’autore della possibilità  di adottare il proprio testo per almeno due anni». 
A Romano, in controtendenza rispetto al parterre di editori, piace l’idea di un albo nel quale accreditarsi esibendo le procedure utilizzate. «Non si tratta di privare l’editore della sua autonomia (anche commerciale), ma di esplicitare come una “mostrina di qualità ” l’adesione ad alcuni criteri facilmente definibili: la pubblicizzazione dei consulenti storici, la percentuale massima dei contributi alla ricerca sul totale delle spese di pubblicazione, il numero di opere prime pubblicate negli ultimi cinque/dieci anni». Secondo Romano, si tratterebbe di un’ottima occasione per molte case editrici, ammesse al marchio doc indipendentemente dal prestigio accumulato negli anni. 
Il rapporto tra accademia ed editoria in Italia non è del tutto risolto. La nostra University Press è spesso proiezione del dipartimento o della facoltà  d’appartenenza, senza altro filtro critico rispetto a quello della cattedra di riferimento. Da qui l’urgenza dei valutatori di far riferimento all’intera classe degli editori. «Non vogliamo interferire in alcun modo nelle vostre scelte», ha detto Benedetto nel corso dell’incontro. «Però sentiamo il dovere di sollecitare criteri di rigore, imparzialità  e trasparenza per condividere comuni obiettivi». Esserci o non esserci? La discussione tra gli editori è appena cominciata.


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