“Preferisco la prigione”. Cina, ti accuso

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Il boia Ideali e gioventù schiacciati sotto le cinghie arrugginite di un carro armato Solo l’elmetto d’acciaio del boia brilla di luminosi bagliori La memoria L’insoddisfazione gonfia di colpa fa sprofondare nel cuore della memoria il momento del tradimento nascondendo la giustizia
Trentuno dicembre 1999, vigilia di un nuovo millennio. A Pechino tutti erano indaffarati a preparare i festeggiamenti. Un amico telefonò da fuori gridando che i mercati erano talmente gremiti di folla che pareva imminente un qualche disastro. Un altro telefonò per invitare me e mia moglie Liu Xia a bere qualcosa e a giocare a carte, ma avevamo già  accettato un precedente invito. Saremmo andati a casa di due professori dell’Università  Renmin, Ding Zilin e Jiang Peikun. Forse, inconsciamente, mia moglie e io avevamo deciso di dedicare la vigilia del nuovo millennio alle anime dei defunti del Quattro Giugno. Insieme a quella famigliola di tre persone – i professori Ding e Jiang e loro figlia (il figlio diciassettenne, Jiang Jielian, fu una delle vittime della repressione in piazza Tiananmen il 4 giugno 1989, ndr) – consumammo una cena molto semplice. Dopo aver chiacchierato un po’ ed esserci raccontati le ultime novità , all’improvviso l’atmosfera si fece seria. Ciascuno di noi se ne rimase seduto, intento a pensare a qualcosa di allegro di cui parlare, ma nonostante ci sforzassimo tra i nostri comuni ricordi e le circostanze avverse non riuscimmo a farci venire in mente veramente nulla da dire che potesse rallegrarci o quanto meno svagarci dandoci un momento di letizia. Quando giunse l’ora di accomiatarci, Ding e Jiang ci consegnarono la relazione scritta sulle tribolazioni da loro a lungo patite, intitolata Seeking Justice for the Witnessed Massacre (Alla ricerca della giustizia per il massacro al quale abbiamo assistito), contenente un elenco di 155 vittime del Quattro Giugno e le testimonianze dei sopravvissuti. Poi mi esortarono più volte, «per piacere e ancora per piacere», a prendermi cura di Liu Xia. Lungo il tragitto che ci riportava verso casa, mia moglie e io restammo in silenzio. Avvicinandoci al nostro indirizzo, scoprimmo che la strada era stata chiusa e che le macchine non potevano transitarvi. Un poliziotto che col volto tirato dirigeva il traffico con gesti bruschi inaspettatamente mi informò: «Eh, questa notte sull’altare appena costruito del Monumento cinese al Nuovo Millennio si recita un altro atto della farsa “assilla-il-popolo-e-prosciuga-le-casse-del-tesoro!”».
E aggiunse: «E vuole il caso che questa strada porti proprio lì». In Cina il Ventesimo secolo non si è concluso il 31 dicembre 1999 ma il primo ottobre, giorno del cinquantesimo anniversario del Partito comunista al governo. Con la corruzione che dilaga sempre e in ogni dove, e con le contestazioni della popolazione che stanno per tracimare, che senso può mai avere sprecare cento miliardi di yuan per mettere in scena le sontuose celebrazioni di un’ennesima puntata della farsa “assilla-il-popolo-e-prosciuga-le-casse-del-tesoro!”? Quella grandiosa cerimonia per il cinquantesimo anniversario è soltanto un’esternazione del culto della personalità  per camuffare sotto le apparenze di un preteso benessere la paura e l’ansia provate dal governo. La Cina deve ancora oggi affrontare il processo di presa di coscienza e pentimento, e non fa altro che accentuare la sua appariscente bolla di ricchezza abbinata a un gretto servilismo.
Figli di puttana È molto difficile farsi un’idea di quanto abbiano patito in questi cinquant’anni i cinesi, e malgrado ciò mai nessuno al potere, neppure una volta, si è sognato di dire alla popolazione: «Mi dispiace». Possiamo ancora salvarci? Di fronte a un potere che spudoratamente aggredisce il midollo stesso delle nostre ossa, la memoria è un campo grigio pallido. Usare i termini «amnesia», «malinconia», e altre definizioni circostanziate credo che sia un grande spreco, un’enorme mancanza di riguardo per le anime dimenticate dei defunti. Se scavo a fondo nei meandri del mio vocabolario mentale, non sono capace di trovare una parola più adatta e non ho alternative: non mi resta che ricorrere alla beffarda definizione di «bestemmia nazionale» di Lu Xun (il fondatore della lingua cinese moderna, ndr) e gridare ad alta voce «Figli di puttana! ».
Tutti colpevoli Nei dieci anni che sono trascorsi dal Quattro Giugno spesso mi sono sentito ossessionato da un senso di colpa. Quando mi trovavo nella prigione di Qincheng ho tradito il sangue delle anime defunte scrivendo una confessione. Dopo essere stato rilasciato, avevo ancora una certa reputazione, una certa fama, e ho ricevuto fin troppe attenzioni. Ma le vittime ordinarie, quelle senza nome che tuttora si trovano in prigione, che cosa hanno ricevuto? Ogniqualvolta ci penso, non sopporto di indagare nelle pieghe più profonde della mia coscienza. Ci sono troppe debolezze alle quali far fronte, troppo egoismo, troppe menzogne spudorate. Per troppo tempo ormai ci siamo piegati verso la lama delle baionette della menzogna, della spudoratezza, dell’egoismo, della debolezza, così da aver perduto sia la memoria sia il tempo. Una vita intontita, incessante, interminabile, che inizia da zero e a zero finisce: quali capacità  possiamo attribuire alla nostra potente nazione? Nessuna. E che cosa ci resta, dunque? In questo Paese perfino i deserti sono colpevoli. Sì, i deserti con il loro sconfinato nulla, la loro desolazione: è questo ciò che ci rimane? Anch’io mangio ciambelle di sangue umano cotte al vapore, al massimo creo abbellimenti, ornamenti contro un sistema anti-umano. Arrestato e poi rilasciato, rilasciato e poi arrestato, e non so quando questo gioco finirà  mai, né so se ho fatto davvero qualcosa di concreto per le anime dei defunti e per essere in grado di permettermi di rammentare con cuore puro e con la coscienza pulita.
La farfalla e la fiamma La cosa che vorrei di più è poter utilizzare la resistenza e la prigionia come forme di redenzione per cercare di rendere pienamente conto a me stesso delle mie stesse convinzioni, dei miei ideali – anche se questo provoca ferite profonde e dolorose alla mia famiglia. La prigione per me e per gli attivisti che si adoperano contro un sistema autoritario non dovrebbe essere motivo di vanto, ma un onore indispensabile. C’è poco da fare, se non resistere. E nella misura in cui la resistenza è una scelta, la prigionia è semplicemente parte di questa scelta: l’inevitabile vocazione dei traditori di uno stato totalitario, proprio come un contadino deve recarsi nei campi o uno studente deve leggere libri. E nella misura in cui resistenza è scegliere di scendere all’inferno, non ci si deve lamentare poi dell’oscurità . E benché io pensi che vi sia un muro indistruttibile sopra di me, devo nondimeno impiegare tutte le forze di cui dispongo per abbatterlo, e la ferita alla testa dalla quale zampilla il sangue è una ferita che mi autoinfliggo. Non è possibile prendersela con nessuno. Non si può addossare a nessuno la colpa, solo sopportare la ferita. Chi mai ti ha costretto a volare di proposito come una farfalla intorno a una fiamma, invece di girarle al largo?
La prigione della mia famiglia Nella quotidianità  è raro che io mi preoccupi delle persone che mi vivono accanto. Di solito mi preoccupo di astrazioni sublimi, quali la giustizia, i diritti umani, la libertà . Sfrutto la mia famiglia per sentirmi al sicuro mentre contemplo con il cuore in subbuglio e il corpo palpitante gli errori quotidiani del mondo. Nei tre anni che sono rimasto in carcere mia moglie ha effettuato trentotto viaggi da Pechino a Dalian per farmi visita, e in diciotto di questi non è neppure riuscita a tollerare di vedermi: ha semplicemente lasciato alcune cose per me e si è precipitata a casa, da sola. Intrappolata in una gelida solitudine, incapace di mantenere la benché minima vita privata essendo continuamente seguita, pedinata e spiata, ha incessantemente atteso, ha incessantemente lottato, con quella tenacia che fa incanutire i capelli nel corso di una sola notte. Io sono punito dalla dittatura con la prigionia. Io punisco la mia famiglia costruendo intorno ai loro cuori una prigione immateriale. Spesso mi è intollerabile ripensare alla strada della resistenza che ho scelto e intrapreso, disseminata com’è dei sacrifici che la mia famiglia è stata costretta a fare. In tali ricorrenti circostanze mi irrito profondamente con me stesso, al punto da sentirmi colpevole in modo quanto mai ripugnante. Le vittime e gli ipocriti È una forma particolare di crudeltà  totalitaristica quella nella quale lo spargimento di sangue resta invisibile. Da quando negli anni Cinquanta ebbe inizio la riforma agraria (“soppressione degli antirivoluzionari”, “ri-conformazione ideologica”, “purghe controrivoluzionarie”, “trasformazione socialista dell’industria e dei commerci”), agli anni Sessanta e Settanta (il “movimento per le quattro pulizie”, il “movimento per l’educazione socialista”, la “Rivoluzione culturale”, la “critica al vento deviazionistico di destra per ribaltare i verdetti”), e poi ancora per tutti gli Ottanta e i Novanta (la “Campagna per l’inquinamento antispirituale”, la “Campagna per l’antiliberalizzazione”, il “Movimento del Quattro Giugno”, la “soppressione del partito democratico e di tutti gli altri dissidenti politici”, la “repressione del Falun Gong e di tutte le organizzazioni non-governative”), sono trascorsi cinquant’anni: la Cina è cresciuta in maniera smisurata, arrivando ad avere una popolazione di 1,9 miliardi di abitanti e ciò nonostante è pressoché impossibile trovare anche solo una famiglia integra. La Moglie e il Marito sono divisi. Il Padre e il Figlio sono diventati nemici. Gli amici si sono traditi vicendevolmente. In questa fetta di mondo così tante vittime innocenti sono state condannate e dileggiate dalla cosiddetta “abnegazione” dei politici di carriera. E i vincitori non hanno mai detto a coloro che hanno reso vittime (compresi i loro stessi familiari): «Mi dispiace». I loro animi sono del tutto in pace ed esenti da angoscia (al massimo assumono una parvenza di senso di colpa e di rimorso). Al contrario, trasformano le vittime in un capitale remunerativo per sé soli. E sulle loro facce ipocrite incollano un altro strato di oro.
I complici della dittatura «Madre patria» è una parola grande, vuota, che ha già  assunto un aspetto sospetto, e per noi qui il patriottismo è diventato per lo più l’ultimo rifugio delle canaglie. Non sono mai stato uno che si informa della razza o del bagaglio etnico di una persona, bensì uno che chiede se la vita che egli vive ha dignità , diritti civili, libertà , amore, bellezza. Tempo fa avevo fatto una dichiarazione eccessiva sui «trecento anni di colonizzazione» (necessari alla Cina per potersi trasformare in senso democratico, ndr). Oggi propendo maggiormente per una «occidentalizzazione di vasta portata», e dicendo «occidentalizzazione» intendo umanizzazione, ovvero trattare le persone come esseri umani e in spirito di uguaglianza. E questo perché in Cina, nel passato e ancora oggi, il governo non ha mai trattato i suoi cittadini come esseri umani. La cosiddetta «intellighenzia» cinese è in buona parte complice della dittatura. I vivi dovrebbero veramente chiudere la bocca e lasciare che a parlare siano i sepolcri: lasciamo che le anime dei defunti insegnino ai vivi che cosa significa morire. Che cosa significhi essere morti ancora vivi. Traduzione Anna Bissanti ©, Graywolf (Ha collaborato Gabriele Pantucci)


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