Dove l’Italia perde peso

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Un paese che una volta portava la quarantadue adesso è sceso alla trentotto, ai limiti dell’anoressia demografica. Una nazione civile, una nazione che sa osservarsi ha il dovere di fermarsi e riflettere sui numeri che lo riguardano. E invece continuiamo a scrivere il libro nero dell’oblio di noi stessi. Gli unici numeri che sembrano interessare sono quelli dello spread. Oltre alla statistica, c’è un’altra disciplina fondamentale per una nazione, la geografia. Gli italiani hanno dato le spalle al sapere umanistico più antico. Incrociando la statistica con la geografia ritroviamo nell’Appennino meridionale i punti in cui l’Italia perde peso. La causa è antica e si chiama emigrazione.
L’Italia cominciò a emigrare appena fu unita. Ma come tutti sanno le cose poi sono andate diversamente tra il sud e il nord. Il passaggio dalla civiltà  contadina alla modernità  industriale è stato fatto in buona parte sulle spalle di chi è stato costretto ad andare via dai suoi paesi. Quando parliamo degli anni del boom dovremmo anche ricordare che lo sviluppo di allora ha sottratto preziose risorse umane al nostro sud. Il processo si ripete in questi anni ed è ancora più grave. Se negli anni ’60 andavano via mille abitanti da una comunità  di cinquemila, l’effetto vuoto era relativo. Ben diversa la situazione nel momento in cui spariscono cento abitanti da un paese di mille persone. Ecco che quel luogo diventa il luogo ideale per farci una discarica, per farci passare un elettrodotto, per piantarvi le pale eoliche, per chiudere l’ufficio postale o il pezzo di ferrovia più vicino, per chiudere la scuola, per aprire senza alcuna delibera il museo della desolazione.
L’Italia è una nazione di paesi, a ogni censimento i dati ce lo ricordano e ogni volta ce lo scordiamo. Riesce veramente difficile trovare nell’ultimo mezzo secolo politiche mirate per i luoghi periferici. Per la politica i paesi non sono mai esistiti, esisteva “il paese” e l’uomo politico che in cambio di voti provava a dirottare un poco di elemosine dal centro. Questo modello adesso è in crisi e le amministrazioni comunali esistono solo per dire ai loro cittadini che non hanno soldi. Adesso il guaio è doppio: ci sono i problemi causati dai tempi in cui arrivavano i soldi e quelli causati dall’angina finanziaria. Chi emigra adesso spesso lascia una grande casa che gli aveva costruito il padre di ritorno dall’emigrazione. Una volta si emigrava da un posto che era visto come focolare e grembo di tutti. Prima di partire si faceva il giro di amici e parenti. Adesso si parte quasi di nascosto, si chiude una casa in una strada in cui tante porte sono già  chiuse. Non c’è più bisogno di scendere in pianura a prendere il treno. I pullman della nuova emigrazione passano sotto casa, raccolgono persone di diversi luoghi, spesso destinati non alla grande metropoli, ma a qualche paese del nord Italia.
Una volta Ettore Scola girò un film che seguiva la storia di un emigrato dal suo paese, Trevico, in Irpinia, alla Fiatnam di Torino. Adesso è difficile trovare racconti sul trentenne lucano che fa il muratore a Sassuolo o sulla trentenne che insegna lettere a Treviso. L’Italia e gli italiani si confrontano su un collutorio di frasi fatte, le opinioni prevalgano sulle percezioni. E così facciamo fatica a percepire che l’antica ferita dell’emigrazione non si è mai chiusa. Una volta chi abitava nei paesi percepiva l’emigrazione perché chi era partito mandava i soldi. Ora si emigra per vivere a stento da qualche parte e se torni nessuno ci fa caso. L’autismo corale uccide i sogni dell’emigrante di ritrovare la sua comunità . A volte basta qualche anno e il proprio paese non lo si riconosce più e se nel frattempo hai perso i genitori non ha più senso tornare. L’emigrazione era fatta di partenze, ma soprattutto di ritorni. Adesso è un’altra storia. Molto spesso si parte dal niente e si arriva da nessuna parte.


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