Il new deal d’europa

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il rigetto di Sarkozy, il successo della xenofobia antieuropea di Marine Le Pen, confermano che esiste ormai un tragico divario, non solo in Francia, fra la gestione contabile dei debiti pubblici e le passioni democratiche dei cittadini.
È finita l’epoca in cui l’economia determinava ogni cosa. È l’economia, stupido! disse nel ’92 uno stratega di Clinton, sicuro che Bush padre non avrebbe vinto con i suoi discorsi sul dopo-guerra fredda. Per vent’anni le menti sono state prigioniere di quel motto fatale, cattivando gran parte delle sinistre europee, ed ecco che fa irruzione una questione che credevamo chiusa, morta: la questione sociale. Sarkozy è sorpassato al primo turno da Hollande e dal Fronte Blu-Marina di Pen per aver ignorato questa novità , pur visibile da tempo. Dalla Francia profonda gli giunge l’annuncio: È il sociale, stupido!
È il sociale come nel 1933-37, quando Roosevelt avviò il New Deal, in reazione alla Grande Depressione del ’29, e non solo predispose ingenti piani di investimento ma corresse anche la democrazia americana: a fatica impose le sue proposte, avversato sia dalla Corte suprema, sia da singoli Stati che ritenevano violate le loro prerogative ed eccessivo l’intervento dello Stato federale. Lo stesso sta accadendo da noi. Pensare in grande, oggi, significa pensare europeo, non limitarsi a escogitare ombrelli temporanei che riparino dalle bancarotte gli Stati periferici. Alla Grande Contrazione dei redditi e dei diritti, e alla disperazione sociale che dilaga, si può rispondere solo con un New Deal, un Nuovo Patto che sia federale e sovra-statale come quello di Roosevelt.
Franà§ois Hollande non ha forse la stoffa di Roosevelt (chi ha la stoffa di un grande, prima di provare?) e l’Europa federale ancora non c’è. Durante tutta la crisi Sarkozy ha impedito questo sviluppo, vantandosi d’aver riportato l’Europa nelle capitali, lontano da Bruxelles. Ma se Hollande la spuntasse, al secondo turno, qualcosa potrebbe cominciare a muoversi. Se le parole che ha detto pesano, l’immobile pigrizia di Merkel e Sarkozy un poco s’incrinerebbe. Non dimentichiamo che tanti Europei lo chiedono: i socialdemocratici e liberali tedeschi (che hanno appena iscritto la Federazione nel programma del partito), il Consiglio degli esperti economici in Germania, i governi polacco e spagnolo, e uomini come Cohn Bendit, Verhofstadt, infine Delors, secondo cui l’odierna politica «uccide l’Europa». Lo chiede anche Mario Monti.
La tesi di Hollande è che il Patto di bilancio franco-tedesco, approvato il 2 marzo da 25 Stati dell’Unione, è una tappa necessaria («Io accetto la disciplina», ha detto ai socialisti europei, in marzo a Parigi) ma fallimentare se non affiancata da una politica europea di investimenti e occupazione. Delors aggiunge: se non abbinata a un’Europa più federale e a un diverso modello di sviluppo.
L’iniziale idea di rinegoziare il Patto di bilancio è stata abbandonata, e la battaglia di Hollande ha ora altri obiettivi: non più la trasformazione dei debiti sovrani in debito comune, ma il potere dato alle istituzioni sovranazionali europee «di finanziare nuovi progetti di sviluppo». Il candidato chiede inoltre che nel Fiscal compact sia introdotta una clausola, perché i fondi per le regioni povere siano meglio usati e la Banca europea degli investimenti diventi più attiva.
Il Fondo salva-stati (Firewall, muro antincendio) è criticato con forza. L’ha criticato anche Robert Zoellick, Presidente uscente della Banca Mondiale, il 16 aprile in un articolo sul Financial Times: «L’agitazione sul Firewall distrae dalla questione fondamentale: che può fare l’Unione per aiutare Italia e Spagna ad attuare le riforme senza perdere il consenso politico? Invece d’azzuffarsi sul muro antincendio, gli Europei dovrebbero aggiungere almeno una frazione – circa 10 miliardi di euro – al capitale della Banca europea degli investimenti».
La vittoria di Hollande potrebbe mitigare le rigidità  della Merkel, far da contrappeso a un dominio continentale di Berlino al contempo prepotente e abulico, che mai è stato sottoposto a vere sfide da Sarkozy, affamato di appoggi alle elezioni. Chi presagisce la fine dell’asse franco-tedesco con Hollande all’Eliseo non ha memoria nel cervello: Parigi e Berlino sono un tandem, per necessità .
Resta che il grosso dello sforzo toccherà  alla Francia, più che mai. È qui che ci si aggrappa più accanitamente alla sovranità  assoluta degli Stati. Per mezzo secolo Parigi ha fatto e disfatto l’Unione ben più capricciosamente della Germania. Il federalismo, antica vocazione tedesca, è inviso in Francia. Hollande denuncia il rigore senza crescita, non il tabù della sovranità  nazionale. Delors è un’eccezione alla regola.
Il non-detto in Europa è che la crisi non è una buia manovra speculativa. Nasce da una dislocazione planetaria dell’economia. La verità  taciuta dai governi è che la crescita di ieri da noi non tornerà : che converrà  dipendere meno da vecchie industrie, non più competitive in Asia e America latina, e puntare su energie rinnovabili, ecologia, ricerca.
Un’altra verità  occultata è l’organizzazione della ripresa. È per risparmiare soldi che il Nuovo Patto deve partire dall’Unione, non dagli Stati. Come ha detto Alfonso Iozzo, ex presidente della Cassa Depositi e Prestiti e federalista europeo, in una riunione romana di EuropEos a marzo: agli Stati incombe l’obbligo del rigore, «all’Europa lo sviluppo con un New Deal». I primi infatti «non possono più sostenere piani nazionalmente troppo costosi». Dice Passera che non possiamo aspettarci ideone dai governi. Ma di ideone c’è bisogno disperato – lo attesta il trionfo dei nazionalismi xenofobi europei – e il New Deal è una di esse.
Si dirà  che mancano i soldi. Ma l’Europa può trovarli, accrescendo il proprio bilancio. Secondo i federalisti, l’aumento delle comuni risorse deve passare dall’1 per cento del prodotto interno lordo al 2. E deve poter essere usata la tassa sulle transazioni finanziarie, oggi solo annunciata, per sostenere i lavoratori colpiti dalla globalizzazione e i giovani esclusi dal lavoro.
L’Europa di Merkel e Sarkozy non ha sanato ma aggravato nell’Unione la sofferenza economica e democratica, accentuando populismi e chiusure nazionaliste. Perfino il trattato di Schengen è messo in causa, spiega Monica Frassoni, deputata europea dei Verdi, sul sito Linkiesta.it: è recente un appello inviato dai ministri dell’Interno di Francia e Germania al Presidente del Consiglio dei Ministri europeo, perché vengano reintrodotti i controlli alle frontiere nazionali contro i migranti illegali. Sarkozy spera di strappare voti a Marine Le Pen. Domenica abbiamo visto che l’originale, almeno per ora, è preferito alla copia.
Può darsi che manchino oggi leader come Roosevelt. Ma la constatazione s’è fatta stantia. Importante è smettere di dire che l’Europa funziona così com’è: che basta – l’ha detto Monti in gennaio alla Welt – la sussidiarietà  (se i nodi non sono sciolti nazionalmente si passa al livello sovranazionale o regionale). La sussidiarietà  è un metodo, che si usa ad hoc. Non è l’istituzione che dura nel tempo e «pensa tutto il giorno all‘Europa», invocata da Delors. Altrimenti l’Europa sarà  la bella statua di Baudelaire: sogno di pietra troneggiante nell’azzurro, nemica di ogni movimento che scomponga le linee. «E mai piange, mai ride».


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