Giuseppe non è stato ucciso dai farmaci

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E oggi sono contenta che sia stata assolta una persona innocente», ha detto uscendo dall’aula Lucia Uva, una delle sorelle dell’uomo morto nel 2008 dopo una notte tutta da chiarire passata nella caserma dei carabinieri. 
Giuseppe era stato fermato insieme all’amico Alberto Biggiogero. Erano le tre di notte del 15 giugno, e i due – un po’ ubriachi – si divertivano a spostare transenne in una strada di Varese. «Oh, Uva proprio te cercavo stasera! Non te la faccio passare liscia», le parole di uno dei carabinieri. Riferite da Biggiogero sin dal primo momento nelle denunce sporte dopo l’accaduto, insieme al racconto delle urla che arrivavano dalla stanza in cui era rinchiuso Giuseppe. Ma l’amico della vittima non è mai stato ascoltato dal pm, Agostino Abate. 
Per Lucia e per la sua famiglia quella di ieri è una vittoria attesa a lungo. Hanno dovuto attendere due anni nel silenzio, mentre le indagini andavano a rilento e soprattutto puntavano senza esitazioni verso la morte a causa dei farmaci somministrati a Giuseppe, dopo che l’uomo quarantenne era stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio chiesto proprio dai carabinieri che avevano passato qualche ora in sua compagnia. Era stata l’associazione A buon diritto a tirare fuori il caso a livello nazionale. Poi l’incontro di Lucia Uva con Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il ragazzo morto a Ferrara per mano di quattro poliziotti, e con Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il 33enne morto a Roma e per cui sono imputati medici e guardie penitenziarie alla Corte d’Assise. Sono state proprio Patrizia e Ilaria – che ieri erano in aula – a presentare a Lucia l’avvocato Fabio Anselmo, che si sta occupando da anni ormai di casi di «malapolizia». Le cose hanno cambiato subito il loro verso. La famiglia Uva si è sentita finalmente ascoltata ed è andata avanti nella sua battaglia, chiedendo nuove perizie e l’analisi di nuovi indizi sulle ecchimosi e i lividi trovati sul corpo di Giuseppe. Poi la superperizia di Thiene (un altro nome che ricorre nei processi di malapolizia), Demoni e Ferrara in cui – come nel caso di Michele Ferulli a Milano, in cui sono imputati quattro poliziotti – si parla di una «tempesta emotiva» che avrebbe causato un infarto. 
Ma quella stessa superperizia sottolineava la totale assenza di informazioni sul lasso di tempo che va dal fermo dei carabinieri e il ricovero in pronto soccorso alle 6 della mattina circa. Indagini mancanti. Ora il giudice ha stabilito che gli atti siano trasmessi al pm. Una richiesta di riapertura delle indagini. «Ora ci aspettiamo che siano fatte, se Dio vuole», ha detto alla fine dell’udienza l’avvocato Anselmo.


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